Želimir Žilnik

Filmmaker Moderns, ovvero gli ultimi dinosauri del cinema moderno. Želimir Žilnik è uno di questi: Jugoslavo, quest’anno ha fatto 80 anni e continua con la sua straordinaria energia a inseguire il suo sogno realizzando film non riconciliati, politici, eccentrici, film che vogliono essere un’arma dialettica e riescono a esserlo grazie all’ostinazione del loro autore, alla sua sensibilità e lucidità, al modo in cui realizza i suoi diamanti grezzi (oltre sessanta in più di cinquant’anni).

A Milano Žilnik presenterà Marble Ass, girato mentre la Jugoslavia veniva smembrata a suon di bombe, di proclami nazionalistici (da una parte e dall’altra), e di strategie geopolitiche occidentali sciagurate.

«Marble Ass è un capolavoro del cinema fai-da-te che dovrebbe entrare nella storia del cinema per almeno tre motivi. Spiega, in modo brutalmente preciso, la mentalità e l’atmosfera di Belgrado durante il periodo buio delle guerre jugoslave degli anni Novanta. Esplode di coraggio (e di empatia): ecco un film apertamente Lgbtq da un paese che, 25 anni dopo, sta ancora cercando di vietare le parate dell’orgoglio omosessuale. E infine Marble Ass rappresenta forse la traduzione più accurata del famoso slogan degli anni Sessanta “fate l’amore, non la guerra” – dalla teoria alla pratica!» (così Jurij Meden, instancabile traghettatore di Žilnik in giro per il mondo, che avrebbe dovuto presentare il film al Festival).

Abbiamo fatto a Žilnik alcune domande sulla genesi di questo strano film dove domina l’aria cupa alla quale ognuno cerca di rispondere, chi cercando l’amore (fosse pure quello a pagamento), chi sfogando gli impulsi peggiori e la propria debolezza contro qualcuno più fragile (come in guerra).

Qual è stato il primo impulso che ti ha spinto a realizzare questo film?

Il film è stato realizzato nel 1994, nel bel mezzo delle guerre che hanno portato al crollo della Federazione jugoslava. La Serbia era governata da un dittatore nazional-comunista, Slobodan Milosevic. A quel tempo, giorno e notte, unità della polizia militare si aggiravano per Belgrado e Novi Sad, reclutando con la forza giovani nell’esercito, con l’obiettivo di mandarli sui campi di battaglia in Bosnia e Croazia. La vita continuava con la paura, l’enorme inflazione, le sanzioni e la propaganda. In quel particolare momento avevamo l’impressione che la nostra società stesse cadendo a pezzi, ma alcuni segni di resistenza stavano emergendo attraverso le crepe della sua disintegrazione. La mia idea iniziale era di produrre un film su giovani uomini che sono stati portati con la forza in guerra e che tornano da essa mentalmente scossi. Durante i preparativi, ho incontrato alcuni membri della scena Lgbtq emergente di Belgrado (alcuni di loro hanno partecipato al mio film precedente, Pretty Women Walking through the City, realizzato nel 1986). Mi hanno detto: «Belgrado è in preda alla follia in questo momento. Noi drag queen siamo le uniche persone normali e libere per strada». Questo è stato l’impulso iniziale.

Come sei arrivato a scegliere il soggetto?

Non c’era alcun dilemma sul tema del film. L’unico dilemma era se stavamo per produrre un documentario o un lungometraggio. Le scene quasi carnevalesche dei bordelli nei pressi della stazione centrale di Belgrado e le continue attività di prostituzione che si svolgevano nelle strade e nei cortili vicini, mi hanno tentato a intraprendere uno stile più documentaristico. Ma questo si è rivelato impossibile e piuttosto pericoloso. Quando i clienti dei servizi sessuali offerti dai travestiti si sono accorti che la telecamera era puntata su di loro, hanno tirato fuori le pistole. Decisi allora che dovevamo abbandonare questa metodologia e passare alla produzione di un lungometraggio di fimzione. Ci siamo presi una pausa di tre settimane per trovare la giusta location per le riprese fuori Belgrado e per realizzare la sceneggiatura.

Il film gioca sui toni della commedia (seppur tinta di nero), mi chiedo se sia nata automaticamente dall’esuberanza del protagonista o se sia stata una necessità implicita fin dall’inizio.

La produzione è stata spostata nella città di Novi Sad, dove ho potuto trasformare una casa di famiglia in uno studio temporaneo. L’intera troupe e il cast hanno trascorso lì circa due settimane, lavorando contemporaneamente alla preparazione dei costumi, degli oggetti di scena, del make-up e alle riprese vere e proprie delle scene. Sia gli attori professionisti che quelli non professionisti avevano dialoghi completamente sceneggiati, con la libertà di adattare il testo parlato con alcune espressioni gergali autentiche di loro scelta. Ma il tono da «commedia nera» a cui fai riferimento nella tua domanda è stata una mia decisione fin dalla fase iniziale del progetto.