Maratona femminile, una conquista
Olimpiadi La presenza del programma arrivò solo a Los Angeles nel 1984. Quest'anno, per la prima volta, chiuderà i Giochi
Olimpiadi La presenza del programma arrivò solo a Los Angeles nel 1984. Quest'anno, per la prima volta, chiuderà i Giochi
La maratona femminile che chiude domani le Olimpiadi fa parte del programma dell’atletica leggera solo dall’edizione di Los Angeles di quarant’anni fa. Il 5 agosto 1984, fu l’americana Joan Benoit a scrivere il primo nome di donna nella gara che riecheggia il mito classico di Fidippide, l’emerodromo che si precipitò ad Atene per annunciare la vittoria contro i Persiani nella battaglia di Maratona.
Gli storici non concordano sul numero di donne che corsero la maratona ai primi Giochi di Atene del 1896, ma nessuna lo fece ufficialmente. Forse una, forse due, si mescolarono clandestinamente ai maschi e non è chiaro se conclusero o meno la corsa. Come si è già ricordato su queste pagine, l’atletica al femminile esordì nell’edizione del 1928 e gli 800 metri furono la gara più lunga. Sei atlete scesero sotto il record del mondo e la vittoria arrise alla tedesca Radke, ma i resoconti giornalistici mistificarono la realtà e sparsero indignazione perché le protagoniste erano giunte esauste al traguardo. William Shirer, corrispondente del Chicago Tribune, che si sarebbe ritagliato un posto fra gli storici del Novecento con il suo volume Storia del Terzo Reich, si inventò addirittura che cinque ragazze erano stramazzate a terra prive di sensi. L’impressione e lo scandalo generato da queste false cronache fu tale che il CIO bandì la gara fino alle Olimpiadi del 1960.
Proprio gli anni ‘60, registrarono però un cambio di scenario. Soprattutto negli Stati Uniti e in Europa occidentale la maratona – e comunque la filosofia della corsa sulle lunghe distanze – fu al centro di una convergenza fra il crescente desiderio delle donne di svolgere attività fisica e l’elevato attivismo politico che mirava a rifondare le norme sociali e le relazioni di genere. Come ha osservato Jaime Schultz, docente dell’Università della Pennsylvania specializzata nella storia dell’attività motoria, vi si può rintracciare una definizione più ampia di femminismo, che abbraccia uno spettro più ampio di contributi: il femminismo e l’indomita volontà di un numero sempre maggiore di ragazze di correre non si riconobbero mai reciprocamente, ma indubbiamente percorsero insieme un lungo tratto di strada e si rafforzarono a vicenda.
La federazione internazionale di atletica e il CIO – egemonizzati da maschi bianchi benestanti – resistevano all’inclusione delle donne per i soliti motivi sessisti: le signore sono fisiologicamente inadatte a certi sport; costituiscono uno spettacolo esteticamente indecente se impegnate in sforzi strenui e ininterrotti; il che compromette le caratteristiche associate all’ideale di «vera femminilità». Le atlete/attiviste non demorsero e sfidando il senso comune, e le regole che le escludevano, si mischiarono agli uomini per partecipare ufficiosamente alle maratone che si disputavano per le vie cittadine. Poterono così eludere i bandi ufficiali, giacché non esistevano norme che vietassero alle donne di correre per le strade pubbliche, ma dovettero rinunciare a qualsiasi risonanza mediatica e alla possibilità di conoscersi e fare rete fra di loro. Servirono perciò episodi eclatanti.
Nel 1960, Bobbi Gibb indossò una pesante felpa, si calò il cappuccio sulla fronte, si legò alle ginocchia una tuta da uomo e corse in incognito la celebre maratona di Boston. A mezza strada si sparse la voce della sua presenza e i giornali fiutarono la notizia. La folla prese a incitarla e quando giunse alla fine, davanti a 290 dei 415 uomini ufficialmente iscritti, il governatore John Volpe volle congratularla personalmente. Tutto ciò non bastò a rimuovere la pregiudiziale maschilista e l’anno seguente Kathrine Switzer ottenne un numero di gara, iscrivendosi con le sole iniziali. Quando la scorsero nel fiume di concorrenti, gli organizzatori cercarono di spingerla fuori dal percorso e di strapparle il pettorale, gli amici la protessero e le immagini dello scontro fisico sconcertarono l’opinione pubblica.
Nel decennio successivo, il numero delle podiste crebbe esponenzialmente. I tempi di percorrenza si abbassarono clamorosamente, tanto che la medicina suggerì che nelle prove di resistenza le donne fossero avvantaggiate rispetto agli uomini, per la struttura ossea, il tasso di grasso corporeo, la flessibilità, il sistema di regolazione del calore e il baricentro generalmente più basso.
Con l’aumento delle praticanti e il miglioramento delle prestazioni, vennero i soldi della pubblicità. Se i media avevano apprezzato il look di Gibb e Switzer, implicitamente facendo passare il messaggio che le donne potevano correre e restare «attraenti», gli sponsor alimentarono questa linea di commenti, contribuendo a contrastare gli strali dei benpensanti. Quando la fascinosa diva Farrah Fawcett comparve sulla copertina della rivista People, perfettamente truccata e in piena corsa, il jogging divenne glamour e di moda. Come ancora Schultz evidenzia, si sarebbe assai tentati di liquidare questa attenzione all’aspetto estetico come un elemento in grado di rinforzare i pregiudizi che invece si volevano abbattere. Tuttavia, le aspiranti maratonete ritenevano all’epoca che aderire a modelli tradizionali di femminilità, o enfatizzare il ruolo di mogli e madri di molte di loro, le ponesse al riparo dall’ostracismo di una società ancora fortemente maschilista e potesse al contempo convincere milioni di ragazze che calzare un paio di sneaker non le avrebbe coperte di peli, né di muscoli virilizzanti.
Finalmente, nel febbraio 1981, il CIO cedette alle pressioni e la maratona femminile fu inclusa nel programma olimpico, proprio nel paese che più degli altri si era impegnato perché questo risultato fosse raggiunto.
Ciò che rese memorabile quell’esordio non fu la vittoria della beniamina di casa, ma l’ultimo agonizzante giro di pista di Gabriela Andersen-Schiess. L’atleta svizzera entrò nel Memorial Coliseum quasi completamente disidratata e impiegò più di cinque minuti per tagliare la linea del traguardo: era appena in trentasettesima posizione, ma l’orgoglio e la determinazione la spinsero a rifiutare l’aiuto dei sanitari, che le sarebbe costato la squalifica. Barcollando e zigzagando, sotto l’occhio impudico delle telecamere e la vigile – seppur passiva – sorveglianza dei medici, Andersen-Schiess concluse infine la prova fra gli applausi scroscianti dello stadio e dimostrò che insieme al diritto a competere le donne avevano finalmente conquistato il diritto a mostrarsi spossate in pubblico.
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