Cultura

Manuel Muñoz, identità di frontiera dai confini cangianti

Manuel Muñoz, identità di frontiera dai confini cangiantiNarsiso Martinez, ‘Super Fresh’ (2020), ink, gouache, charcoal and collage on cardboard produce boxes (Charlie James Gallery)

L’intervista Parla l’autore di «Le conseguenze», edito da Black Coffee. Figlio di lavoratori migranti, lo scrittore racconta il mondo dalla Central Valley della California. «L’editoria privilegia i contesti urbani o le classi medie e alte. Perciò, ci sono così tante storie e comunità che sono escluse dalle nostre letterature nazionali»

Pubblicato circa un anno faEdizione del 29 settembre 2023

Delfina si fida di Lis perché entrambe parlano spagnolo e, allo stesso modo, sembrano attendere il ritorno di un uomo che la mattina se ne è andato presto verso i campi sul furgone di un «caporale». Rimarrà senza soldi e senza auto dopo che la nuova amica l’ha lasciata in mezzo ai filari di pesche sottraendole anche la paga della giornata. Mark si renderà conto di aver perso con Teddy qualcosa di più di un amore occasionale, compiendo un viaggio a ritroso nella vita dell’ex compagno, per raggiungere da Fresno, California, la cittadina d’origine dell’uomo nel bel mezzo della polverosa pianura del Texas.
Si tratti della vita degli immigrati ispanici che lavorano nei campi della California, della vita di coppie etero come omosessuali, della memoria dei luoghi che si riverbera in quella delle persone, l’epicentro sentimentale delle storie di Manuel Muñoz è racchiuso nella Central Valley, tra Sacramento e Fresno, dove è nato nel 1972 nella cittadina di Dinuba in una famiglia di braccianti agricoli di origine messicana. Scrittore e docente all’Università di Tucson in Arizona, Manuel Muñoz è autore della raccolta di racconti Le conseguenze che esce in questi giorni per Black Coffee (traduzione di Annalisa Nelson, pp. 226, euro 18). La sua è una delle voci più interessanti della nuova narrativa statunitense.

Una parte dei racconti riuniti ne «Le conseguenze» sono frutto dei «cuentos» che ascoltava dai suoi genitori, altri fanno pensare al suo percorso di adulto: si può leggere questo libro come una sorta di memoir sia intimo che collettivo?
Più che come delle memorie, penso effettivamente che queste storie possano essere considerate sia intime che collettive. La vita privata di ognuno di noi, in quanto individui, ha bisogno di quanta più espressione possibile: in questo senso quando queste storie vengono messe insieme, diventano davvero collettive. I nostri quartieri, le nostre comunità e le nostre famiglie: tutti condividono del resto delle storie. Sono invece più incerto nel considerare ciò che scrivo nei termini dell’autobiografia. Scrivo narrativa proprio perché mi aiuta a proteggere le parti più vulnerabili della mia memoria e della mia esperienza. Tuttavia, so che tra i lettori c’è chi predilige questo approccio nei confronti delle mie storie. Quindi, per un racconto come «Il lavoro nei campi» (compreso nella raccolta, ndr), ho giocato intenzionalmente con un tono simile a quello di un memoir. Anche se alla fine si tratta di una fiction.

Lo scrittore Manuel Muñoz

Molti dei suoi racconti riguardano i lavoratori migranti impiegati nei campi. Una realtà descritta, tra gli altri, da John Steinbeck negli anni 30 in opere come «Furore» o «Uomini e topi», ma che in seguito è mancata nella letteratura americana. Le sue storie, che fanno parlare in prima persona queste persone, colmano una lacuna?
Lo spero. Ci sono così tante storie e comunità che sono escluse dalle nostre letterature nazionali. Spesso il mondo dell’editoria privilegia i contesti urbani o le classi medie e alte, le cui gioie e i cui problemi ci sono narrati attraverso molteplici varianti. Ma anche le nostre comunità hanno altrettante gioie e problemi. E più storie sentiamo che provengono da luoghi diversi, più incoraggiano le risposte. Ciò che intendo dire è che a volte le storie o le poesie sono così potenti da invitarci a creare qualcosa con cui rispondere per poter aprire un dialogo. Tutti vogliamo partecipare a questa conversazione. La mia speranza è perciò che scrivere queste storie non solo aiuti a colmare quell’assenza storica, ma aiuti anche a incoraggiare l’inclusione delle voci degli altri. Di tutti gli altri.

I racconti sono ambientati negli anni 80, quando, nell’86, il Congresso approvò l’Immigration Reform and Control Act che «regolarizzò» alcuni, ma diede il via anche a molte espulsioni. Come accade al marito di Delfina nel primo racconto del libro, le persone potevano venire espulse da un momento all’altro. Come vivere per anni con una tale minaccia su di sé?
Ero troppo giovane per capire l’effetto che questo ebbe sui miei genitori. Credo sia uno dei motivi per cui non mi hanno mai raccontato troppi dettagli relativi a quegli anni. Penso che volessero proteggermi da tutte le difficoltà che avevano provato. Da bambino vivevo molto intensamente le assenze di mio padre, ma i lettori noteranno che non ho puntato troppo su questo aspetto delle vicende che descrivo. Faccio del mio meglio per immaginare come i miei genitori abbiano affrontato quelle situazioni. So che erano sicuramente spaventati e inquieti. Ma erano anche coraggiosi e risoluti.

Fino al 15 ottobre negli Stati Uniti si svolge il National Hispanic Heritage Month «per riconoscere i contributi e l’influenza degli ispanici americani alla storia, alla cultura e alle conquiste del Paese». Quanto conta in un momento segnato dal ritorno dei miti nativisti della supremazia wasp, l’affermazione nello spazio pubblico del ruolo degli ispanici nel determinare l’identità plurale del Paese?
Ad essere sincero, in passato non mi importava molto di questo tipo di valutazioni. Ma, man mano che sono cresciuto e che è cresciuto anche il nostro contributo alle arti, all’attivismo, allo sport, alla medicina – come in molti altri campi – mi ha commosso sempre di più vedere la nostra comunità celebrata per il modo in cui ha contribuito alla vita di questo Paese. Allo stesso tempo, penso che nei media siamo ancora rappresentati troppo spesso in termini abietti e umilianti. Così ho imparato ad apprezzare la gioia che viene espressa mentre celebriamo così tanti risultati e il modo in cui incoraggiano le nostre comunità a sognare ancora più in grande.

Nel racconto «Il lavoro nei campi», scrive: «Quando ero piccolo, sognavo ad alta voce di andare via dalla Valley e la domanda di mia madre era sempre la stessa: a fare cosa?». Ora che insegna all’Università di Tucson come è cambiato il suo rapporto con la zona in cui è nato e cresciuto?
Vivo ormai a Tucson da più di quindici anni, ma devo ancora scriverne. Ho costruito un’importante rete di amici e colleghi. Eppure la Central Valley rimane la mia vera casa. Ogni volta che vi faccio ritorno, sento nelle ossa che ha ancora molte storie da raccontare. Non credo che quella sensazione scomparirà mai e mi sento davvero fortunato a possederla.

Queste storie ci parlano della perdita e di ciò che di negativo può accadere improvvisamente. Allo stesso modo, la forza dei sentimenti e la tenerezza si sprigionano anche in mezzo ai guai. Quale filo le lega l’una all’altra?
In passato, le parole che ho usato di più per definire queste storie sono state rimpianto, colpa, redenzione e perdono. Questi sono tutti scenari complicati e possono produrre in noi sentimenti difficili e contraddittori. Quindi, quando la tenerezza traspare in situazioni come queste, ne sono attratto come scrittore.

I suoi personaggi sembrano muoversi tra l’incertezza dell’essere lontani da casa e il fatto che vivere all’interno di una piccola comunità può limitare le proprie scelte o il sentirsi liberi fino in fondo. In che modo si compiono le loro traiettorie esistenziali dentro questa apparente contraddizione?
Mi rendo conto che in tutti i miei libri si incontrano dei personaggi che lasciano un luogo o desiderano lasciare un luogo. Eppure, nel momento stesso in cui riescono a farlo, sentono già che gli mancherà. Credo sia qualcosa che ha a che fare con la nostra incapacità di affrontare il fatto che il posto da cui veniamo continuerà ad esistere anche senza di noi: proprio come noi abbiamo le nostre vite e viviamo i nostri cambiamenti, così accade anche ai luoghi. Ma per qualche motivo questo è molto più difficile da accettare.

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