Kouassi Pli Adama Mamadou è un attivista del Centro sociale ex Canapificio e del Movimento migranti e rifugiati di Caserta, conosce 13 lingue e fa il mediatore culturale. Nel film di Matteo Garrone Leone d’Argento a Venezia, Io Capitano, ha contribuito alla sceneggiatura di un racconto corale, in cui si intrecciano molte storie di migrazione. Nel 2001, a 18 anni, Mamadou ha lasciato la Costa d’Avorio a causa della guerra civile riparando con la famiglia in Ghana. Nel 2005 con un cugino, senza avvisare i familiari, è partito per la Libia attraversando il deserto. Dopo tre anni durissimi e 40 giorni di prigionia, la decisione di imbarcarsi alla volta dell’Italia. Sono stati tre giorni alla deriva e poi il gommone si è spaccato: una donna col suo bambino e un uomo sono morti. In oltre sessanta si sono salvati perché dei pescatori hanno allertato la Guarda Costiera che li ha sbarcati a Lampedusa. Ieri, mentre il governo varava una nuova stretta sull’accoglienza, Mamadou partecipava alla commemorazione della strage di Castel Volturno, il raid camorristico che trucidò il 18 settembre di 15 anni fa sotto i colpi di Kalashnikov sei ghanesi.

In Senato c’è una proposta di legge per fare di questa data la giornata nazionale della memoria delle vittime del razzismo in Italia.
Ogni anno ci ritroviamo per non dimenticare ma anche per fare il punto sulle difficoltà che attraversiamo. I ragazzi uccisi dal gruppo di fuoco dei Setola ogni mattina andavano sulle rotonde per cercare lavoro nei campi. Alcuni erano sarti. Sono stati ammazzati in modo barbaro, tra le motivazioni del raid l’odio razziale e la volontà di terrorizzare. Quanto è successo è parte della nostra storia. Dedichiamo la giornata a quanti si vedono negare il permesso di soggiorno, a quanti non riescono a trovare canali di ingresso regolari e sono costretti a intraprendere viaggi pericolosi, a quanti si vedono negare il contratto di fitto o la residenza o una giusta paga. Alle commemorazioni partecipano gli studenti, è importante conoscere il territorio in cui vivono per essere protagonisti di un futuro migliore. I ragazzi fanno un gioco di ruolo per capire le difficoltà che attraversiamo noi migranti: la partenza, i Paesi di provenienza con le loro tradizioni, è un momento di educazione ma anche un modo per conoscerci.

Il governo ha deciso di aprire nuovi Centri di permanenza per i rimpatri in luoghi isolati e sorvegliati. È così che si affrontano le migrazioni?
Questo braccio di ferro non è mai servito. La legge Bossi-Fini da vent’anni produce disastri. Quello che occorre sono canali di ingresso regolari e dare il visto anche a chi è in Italia e cerca lavoro. Questo aiuterebbe a lottare contro la clandestinità perché così lo Stato sa chi c’è nel Paese e da dove viene. Gli accordi con Libia e Tunisia non servono a niente: tanti muoiono nella traversata; altri, come me, vengono presi e risbattuti nei campi di prigionia ma tutto questo non ferma chi vuole partire. Ci vorrebbe una politica di collaborazione con i Paesi di provenienza per creare corridoi sicuri che portino a una buona accoglienza, all’integrazione. È questa la via per combattere i trafficanti di esseri umani. Non i Centri per il rimpatrio né la stretta sulla protezione speciale e sui permessi. Chi fugge lo fa per sopravvivere, perché non ha scelta.

Il governo invece ha allungato a 18 mesi i tempi di permanenza nei Cpr.
Non è accettabile perché, dal punto di vista giuridico, significa trattenere persone che sono scappate dalla fame, dalla carenza d’acqua, dal clima estremo. Individui che sono fuggiti dalle guerre, come in Mali, in Niger, in Burkina Faso. Rinchiudere per espellere queste persone è ingiusto. Siccome l’Italia è il primo paese di approdo dovrebbe adoperarsi per cambiare le politiche europee ma non come sta facendo. Il governo dovrebbe ascoltare quello che dicono le realtà che lottano per i diritti dei migranti.

Francia e Germania stanno chiudendo i loro confini, l’Ue sembra virare verso i sovranisti alla vigilia delle elezioni europee.
La Francia, in primis, sa che molti scappano da guerre innescate da un sistema economico influenzato proprio da Parigi. Costruire nuovi Cpr, più grandi, provocherà conseguenze negative che poi ricadranno sulla società italiana. È più utile insistere con l’Europa per una redistribuzione equa dei migranti.

Com’è stato partecipare alla scrittura di un film in cui si intrecciano le storie di chi decide di fare Il Viaggio?
Nella trama ci sono le vite di tantissime persone. Gli italiani vedono soltanto l’arrivo a Lampedusa, il film invece racconta il desiderio di avere una speranza di vita. Sono però in tanti a morite nel deserto o annegati nel Mediterraneo, questo vuol dire che non abbiamo gli stessi diritti, la stessa opportunità di viaggiare: a un europeo che vuole andare in Africa basta chiedere il visto ma l’inverso non si può fare. Decidiamo di affrontare un cammino mortale sapendo che andremo incontro a malvagità terribili ma non siamo solo dei migranti: i posti da cui veniamo sono ricchi di cultura, del senso di comunità. C’è la povertà in Africa, nella nostra povertà viviamo nella dignità. Il modo in cui ci aiutiamo mentre attraversiamo il deserto o sopportiamo la prigionia racconta i nostri valori umani. Per me è stato un modo per fare divulgazione ed è anche una possibilità di riscatto per chi è riuscito ad arrivare e per la memoria di chi non è riuscito.

Cosa vorresti dire al governo?
Visto che le politiche degli ultimi venti anni hanno fallito, lancio una sfida: facciamo canali di ingresso regolari, diamo il permesso di soggiorno a chi vive in Italia e ha un mestiere o lo sta cercando e vediamo da qui a due anni se si è risolto il problema. Per smettere di parlare di immigrazione incontrollabile bisogna creare canali di ingresso regolari.