Visioni

Majid Bita, «racconto l’Iran tra polvere e desiderio di libertà»

Majid Bita, «racconto l’Iran tra polvere e desiderio di libertà»Una tavola da «Nato in Iran» di Majid Bita

Incontri La sua graphic novel, in libreria da oggi, ripercorre la storia recente del Paese nel suo vissuto personale

Pubblicato più di un anno faEdizione del 7 aprile 2023
Majid Bita

«La guerra era finita da circa un anno, ma la sua puzza era ancora dappertutto», è la frase chiave intorno a cui ruota gran parte del fumetto d’esordio di Majid Bita Nato in Iran, sviluppo della tesi di laurea, iniziato circa cinque anni fa, in libreria da oggi, per Canicola nella collana I Quindici. «La puzza di guerra non è finita nemmeno oggi, è ambigua e l’ambiguità traspare in tutto il libro» spiega l’autore, classe ’85. «Le conseguenze e i conflitti sono anche nelle famiglie. Dopo la guerra Iran-Iraq non ce ne sono state altre, ma non abbiamo avuto la pace».

Una notte le finestre della grande casa dei nonni vibrano, trema tutto, e l’intera famiglia scappa in cantina per ripararsi da un bombardamento. Majid è bambino, resta immobile, paralizzato dalla paura, è inerme, solo dopo si capirà che non è stato un attacco aereo, ma una scossa di terremoto. In poco meno di 360 pagine in bianco e nero con un segno schizzato, polveroso come la patina che si appoggia sui ricordi e le memorie, realtà e immaginazione si confondono, incubi e avvenimenti si mescolano. «Sembra cenere da spolverare, soprattutto mentre parlo della mia infanzia in cui i racconti sono ambigui e il tratto più sporco, punteggiato. Procedendo nella storia i segni diventano più puliti, fuori casa c’è più luce, più realtà, meno puntini. L’Iran per me è sempre mescolato alla polvere e alla nebbia, come la realtà che non è intelligibile. Il tratteggio mi dà l’opportunità di tirar fuori la sensazione che voglio, inizio a sporcare e pian piano vedo un oggetto, tiro fuori le ombre, aggiungo, sporco, nascondo. Questa tecnica mi rappresenta anche psicologicamente, racconta l’identità, una sensazione, senza dire o dipingere precisamente le cose».

IL RACCONTO comincia nel ’92 a Tehran, con flashback a quando l’autore ha quattro anni, e si conclude nel 2014, l’anno in cui lascia l’Iran e si trasferisce a Bologna dove frequenta i corsi di pittura e linguaggi del fumetto l’Accademia di Belle Arti. Bita crea un affresco personale, autobiografico e politico, una storia intima e collettiva insieme: «Per non virare solo sul dolore e l’angoscia ho scelto di raccontare attraverso i miei parenti, i loro sguardi, e non tramite i fatti politici o le notizie. Lontano dai ricordi mi è rimasto poco, solo dei flash, per questo trovo che i racconti brevi hanno una forma più autentica. Cerco di interpretare le questioni iraniane filtrate dal mio vissuto per trasmettere la sensazione di come si vive sotto la dittatura attraverso i tratteggi, il segno nero. Le strisce sono come istantanee, scatti veloci».

In Italia il femminile in Iran è visto come vittima del regime mentre lotta da un secolo, tra i giovani c’è un cambiamento culturale in atto Majid Bita

Creature fantastiche, surreali e spaventose marcatamente sessualizzate popolano i suoi sonni, sono i mostri della sua infanzia che si intrecciano all’alone dei racconti fatti da nonni, zii e genitori. Su tutto aleggia il fantasma della guerra, l’ombra lunga della rivoluzione e di tutto quello che ancora proietta sulla sua generazione, figlia di chi la rivoluzione l’ha agita.

La paralisi del Majid piccolo e grande, torna spesso, anche durante le manifestazioni. La ricerca della libertà e la volontà di cambiare le cose avviene con piccoli gesti quotidiani di sfida, come le letture fatte in segreto di libri proibiti ritrovati come un tesoro nascosto in cantina. «Ho sfogliato i testi che raccontavano quella lunga storia di cui ancora non sapevo nulla, ma che già influenzava la mia vita» scrive. Bita parla di vecchie coperte decorate che «pesano tanto quanto l’importanza che hanno per la nostra famiglia. Rappresentano un’eredità. In questo momento io sto morendo sotto il peso di questa eredità». Una metafora sul lascito delle generazioni precedenti che può schiacciare le nuove. Tanti i riferimenti e gli omaggi alla cultura italiana che l’autore ama, da Silone a Fellini, Pasolini, Calvino, Tabucchi, la Divina Commedia, e la lingua imparata ripetendo le battute dei film.

Della tavola in cui manifesta insieme ad altri giovani con la maschera di Mahsa Amini, poi diventata l’immagine di copertina dice: «L’ho iniziata un mese dopo le rivolte, ho voluto i tratti della donna simbolo delle proteste, in questo modo il presente si è sovrapposto al passato. È stata fatta con dolore e fatica ed è diventata la più personale e intima. È l’immagine di donne tutt’altro che vittime e schiacciate da un sistema, sono contento che non stiano a testa bassa, ma che urlino». «Il libro non racconta le manifestazioni del 2022 e 2023, ma le donne sono sempre protagoniste e questo è un tema caro per me – spiega ancora l’artista – In Italia ci sono molti cliché, il femminile è visto spesso solo come vittima del regime, mentre invece lotta da più di un secolo. C’è un cambiamento culturale in atto, i giovani non si sentono più rappresentati da questi stereotipi, sono generazioni che scendono in strada, si sacrificano, vengono uccise per difendere le sorelle. Le madri hanno avuto un ruolo importante nell’educazione dei figli, gli stessi che scendono in piazza contro il regime. Se la famiglia iraniana fosse stata repressiva come il regime non avrebbe educato le bambine a manifestare».

AGGIUNGE: «Volevo raccontare la sensazione di essere un bambino nato e cresciuto dentro la guerra, ho scelto sei capitoli: la città, la famiglia, la censura, la dittatura, la guerra e l’Italia, grandi temi che rappresentano simbolicamente la mia generazione. Parlo degli scontri fra padri e figli, racconto le lotte di oltre cento anni senza raggiungere l’obiettivo, ma che non ci ha fatto arrendere. Ci sono stati insegnanti che da dentro al sistema hanno provato a educarci raccontandoci cose che non erano nei testi di storia e letteratura, facendoci conoscere film e libri di riferimento, dimostrando il ruolo che ognuno può avere anche sotto un regime dittatoriale come i tanti artisti che hanno scelto di non lavorare in Iran per non subire la censura, ma hanno accompagnato le nuove generazioni nella lotta. Grandi maestri di cinema, musica e letteratura che sono rimasti e hanno insegnato clandestinamente».

IL SEGNO grafico di Nato in Iran rimanda a quello di Joe Sacco, David B, Satrapi, ma Majid Bita quando ha cominciato non era un lettore di fumetti, in Iran non ne circolavano. Fra i suoi riferimenti c’è stato piuttosto l’immaginario di Ronald Topor e del cinema di Angelopoulos. La graphic novel si chiude in maniera brusca, quasi aperta «perché non sono sicuro di niente, neanche di quello che ho vissuto» commenta. Nell’intensa postfazione dal titolo Un mezzo esiliato, Bati con un grande senso di colpa motiva la scelta necessaria di lasciare il paese: «In Iran avrei potuto almeno affrontare i problemi della vita nella mia lingua madre. Ho l’impressione di essere scisso in due, l’esilio non ha mai un effetto positivo. Rappresenta piuttosto un fallimento, ancora di più per un artista. Ci ho messo quasi due anni a decidermi, a capire che non potevo più sopportare la situazione che stavo vivendo in Iran. Non vedevo più un futuro di fronte a me».

NON MANCA la delusione e l’amarezza per quell’atmosfera di cambiamento dopo l’elezione di Khatami che non ha mantenuto le promesse, paragonabile «alla caduta del muro di Berlino. Un’ondata che avrebbe forse rivoluzionato l’Iran e oggi io e molti della mia generazione forse saremmo diventati gli artisti che desideravamo essere nel nostro Paese. Gli artisti iraniani in esilio stanno trovando la propria identità per potersi raccontare, una lingua nuova”. Majid Bita sarà ospite a Napoli a Comicon dal 28 aprile al 1° maggio e il 6 al Festival Libbra delle librerie indipendenti.

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