Visioni

«La bambina segreta», cercando la libertà nell’Iran che opprime

Una scena da «La bambina segreta»Una scena da «La bambina segreta»

Al cinema Il film di Ali Asgari, una giovane donna e i giudizi della società, la trappola del patriarcato. Pur se realizzato prima della morte di Mahsa Amini ci parla della stessa battaglia

Pubblicato 6 giorni faEdizione del 21 settembre 2024

In un intervento pubblicato qualche giorno fa sul quotidiano francese «Libération», moltissime registe, artiste, studiose, militanti femministe iraniane in esilio e non hanno espresso una lucida e puntuale riflessione sul movimento Donna Vita Libertà, esploso in Iran dopo la morte di Jina Mahsa Amini, sottolineandone la portata rivoluzionaria a cominciare dal fatto che per la prima volta questa lotta contro la società patriarcale mette in discussione l’intera struttura della società iraniana.

Al tempo stesso nel loro intervento interrogano lo sguardo occidentale sul movimento, e la strumentalizzazione che ne viene fatta, soprattutto dalle destre, in funzione islamofoba – per prima cosa il velo delle donne che vivono in occidente. L’appiattimento delle complessità specifiche e il loro abuso è dunque molto bene illuminato in questo testo, e allargando un poco la questione può essere preso anche come una sorta di lente per rivedere alcune nostre interpretazioni, e in senso contrario, ciò che ci viene proposto nel modo di raccontare alcune realtà.

Tali domande vengono abbastanza in mente davanti a La bambina segreta, del regista iraniano Ali Asgari che è stato realizzato nel 2022, prima perciò dell’uccisione di Mahsa Amini – il 16 settembre di quell’anno – e che però si nutre di quella stessa paura che sembra governare le relazioni a Tehran. Asgari, autore di Kafka a Tehran, che su questo meccanismo lavorava nelle cose del quotidiano, sceglie come protagonista una giovane donna ragazza madre, che lavora e studia, o almeno ci prova, cercando di occuparsi della figlioletta di soli due mesi.

IL PADRE non ne vuole sapere, non ha voglia di assumersi alcuna responsabilità. Del prima non si sa nulla, non sappiamo (e non sapremo) cioè se la ragazza ha provato a abortire, se invece ha voluto comunque la figlioletta, di fatto la bambina ora è lì, e della sua esistenza i genitori della protagonista non sanno nulla. Finché un giorno non la chiamano per dirle che si fermeranno nella capitale da lei e a quel punto scatta l’urgenza di nascondere la piccola in un meccanismo di paranoia che diviene sempre più forte.

Seguiamo così la ragazza con la sua figlioletta attraverso la città, un vagabondare di porta chiusa in porta chiusa, fra amiche che spariscono, dinieghi per timore di denunce, possibilità che si aprono ma che si rivelano fasulle, documenti che mancano, nell’indifferenza o quasi del ragazzo che è il padre e con il solo aiuto di un’amica.

È CHIARO che la costruzione narrativa del regista procede in astrazione (non si sa dove la piccola sia nata, come ecc) ma al di là dei fatti e della loro veridicità ciò su cui sembra concentrarsi il regista è piuttosto quella sorta di «trappola» soffocante che circonda la sua protagonista obbligandola alla menzogna e a una vita da clandestina, a fronte appunto del totale disinteresse del ragazzo – e come diventi la sola «colpevole» di tutto nella mentalità dominante. Questa declinazione di un patriarcato che riguarda gli uomini e che è entrato nella identità femminile – e che peraltro non appartiene alla sola società iraniana così come è condizione assai diffusa che un padre non riconosca la propria responsabilità rispetto a un figlio – è ciò con cui si confronta Fereshteh (Sadaf Asgari) in questa giornata che la oppone nel primo piano allo sfondo di una città grigia, chiusa, ripiegata su se stessa. E dove pian piano cresce la sua consapevolezza verso una rivendicazione di sé e delle proprie scelte di vita che in questo caso è quello della maternità senza matrimonio, e oltre a questo di una libertà di poter scegliere senza terrore.

Quel sistema che invece inchioda le donne – e con loro la vita collettiva tutta – lo impedisce. E genera come vediamo da ciò che capita nel film ambiguità e ricatti, una rete dalla quale sembra impossibile uscire. Asgari ha qui sviluppato un suo corto La bambina (2014), insieme alla co-sceneggiatrice Alireza Khatami lavorando sul senso del titolo: «Fino a domani» – la domanda che la protagonista pone a tutti «Puoi tenere la bambina fino a domani?». Ha spiegato il regista: «Il significato è anche metaforico, riguarda la possibilità di un futuro più luminoso di oggi. Nel nostro Paese ci sono generazioni di giovani diverse dalla nostra. Ci sono giovani coraggiosi, intrepidi; non accettano che sia imposto loro cosa fare».

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