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Maestri indiani e incanti coloniali

Maestri indiani e incanti colonialiCerchia di Ghulam Ali Khan, "Reclute", dall’"Album Fraser", Delhi, post 1814, Washington, Smithsonian Institute

Riscoperte nell'arte: Company Style Fra Sette e Ottocento, fra stile moghul e modelli scientifici europei, i pittori della East India Company crearono un’arte «ingioiellata» per grandi mecenati: Claude Martin, Sir Elijah Impey, William Fraser...

Pubblicato circa un anno faEdizione del 9 luglio 2023

Fra i primi impieghi della carta fabbricata da James Whatman ci fu la stampa delle opere di Virgilio realizzata da John Baskerville nel 1757: compatta, senza grumi o asperità, tratteneva l’impressione in maniera netta e la superfice perfettamente liscia venne subito apprezzata anche dai pittori.

Più tardi James Whatman «il giovane», per distinguerlo dall’omonimo padre, perfezionò ulteriormente il prodotto che divenne il supporto più sofisticato per la scrittura, la stampa e la pittura a discapito della carta vergata usata fino ad allora. James il giovane riuscì a produrre fogli di grande dimensione, la cosiddetta antiquarian size, richiesta in quantità da un personaggio arruolatosi nel 1751 per servire nelle truppe della Compagnia francese delle Indie, Claude Martin, passato poi a servire il nemico, la East India Company inglese, e arricchitosi in maniera colossale.

Martin costruì diversi edifici a Lucknow fra cui il Palais de Lyon (denominato così in onore della propria città natale), le cui arcate sprofondavano nel fiume, interni neoclassici con specchi che un visitatore giudicò più grandi di quelli di Versailles, e un giardino lussureggiante, dotato di pallone aerostatico disegnato dal proprietario stesso, all’estremità del quale allestiva quel che lo stesso ospite definì «un Etna di fuochi d’artificio». Al suo interno Martin conduceva la vita di un principe indiano, con la moglie locale, bambini, uno stuolo di servitù che includeva due eunuchi e un travestito; personale europeo soprintendeva a cucina e cantina.

Colui che alla morte avvenuta nel 1800 venne considerato l’europeo più ricco dell’India non trascurava l’erudizione, e i fogli di carta ordinati non solo a Londra ma anche in Cina (dopo la sua scomparsa se ne contavano ancora 17.000 intonsi) servivano a rappresentare la flora e la fauna locale per mano di pittori indiani di grande talento.

Il cosiddetto Album Martin, con circa seicento immagini di piante, è oggi quasi interamente nella biblioteca del Royal Botanic Garden di Kew e alcuni dei suoi fogli aprivano la mostra alla Wallace Collection di Londra agli inizi del 2020, interrotta per la pandemia e riaperta nel luglio successivo. Forgotten Masters. Indian Painting for the East India Company raccontava circa cento anni di pittura indiana per committenti inglesi (Martin poteva essere considerato tale) attraverso la rappresentazione della natura e di brani di vita coloniale.

Per lungo tempo ci si è chiesti se considerare questa produzione come pittura indiana o piuttosto come un ibrido.

Le rappresentazioni appaiono sospese fra la poetica della tradizione moghul e i modelli scientifici occidentali, e si è perfino coniato il termine company style, mutuandolo dalla committenza dei ranghi amministrativi e militari della East India Company, ma la varietà delle opere in mostra vanifica quella classificazione.

Se, ad esempio, in alcune figure di volatili appartenute a Martin compaiono fondali paesaggistici miniaturizzati e una soffusa impressione atmosferica, quelle in un altro celebre gruppo, il cosiddetto Album Impey, navigano nel vuoto assoluto del fondo.

Sir Elijah Impey arrivò in veste di capo della corte suprema di Calcutta nel 1774, accompagnato dalla moglie Mary, e in pochi anni allestì un piccolo zoo nel giardino della loro residenza in cui coltivava anche esemplari della flora locale. Lady Impey annotò con cura ogni foglio della raccolta lasciando uno spazio perché gli artisti vi apponessero la loro firma in persiano, alla quale lei aggiungeva il luogo di provenienza. Sheikh Zain ud-Din, Bhawani Das e Ram Das sono fra gli autori di quelle composizioni minuziose nel dettaglio e imponenti nella impostazione astratta sul fondo neutro della carta.

Bhawani Das, “Pteropus Vampyrus”, dall’”Album Impey”, Calcutta 1778-’82 circa, coll. priv.

Uccelli e piccoli roditori sono rappresentati su rami di piante, secondo un sistema tradizionale in Occidente (è indiscutibile che ai pazienti esecutori di quelle immagini siano stati mostrati modelli europei, come i primi volumi della Histoire Naturelle di Buffon, editi a partire dal 1770, o più antichi repertori seicenteschi) ma, come è stato notato, l’elemento vegetale ha a volte un trattamento più profondo di quello animale, ed è impreziosito di ombre leggere sulle foglie in cui ogni nervatura sembra quasi palpabile. I singoli mammiferi invece campiscono il foglio con drammatica imponenza: i pipistrelli di Bhawani Das sono terrificanti nella meticolosa naturalezza che sembra voler indagare il loro carattere.

Se i pittori all’opera per Martin avevano lavorato con tecniche e materie della loro tradizione, gli autori dei fogli Impey si cimentarono a volte con acquarelli occidentali, ma mantennero la loro congenita inclinazione alla preziosità ottenuta con microscopici tocchi quasi ingioiellati dei particolari e con velature di gomma arabica.

Diviso fra questi principali committenti, Martin e gli Impey, e fra altri ancora, si muoveva il pittore tedesco Johann Zoffany, che fra il 1783 e il 1789 fu in India e ritrasse il generale e faccendiere francese almeno in due occasioni insieme ad altri membri della Compagnia inglese.

Per gli Impey, Zoffany costruì invece uno dei suoi gruppi di famiglia con al centro il maggiore dei rampolli in abiti indiani che accenna un passo di danza sotto l’occhio ammirato del padre e la placida indifferenza materna, nella discreta presenza dei servitori sul fondo.

Ma quelle sono forse le ultime immagini dell’era settecentesca dell’East India Company, che col nuovo secolo sembra dimenticare l’interesse enciclopedico a favore di un sentimento più pittoresco e soprattutto autocelebrativo.

La Compagnia sta per trasformarsi nel Raj e gli album si moltiplicano, gli artisti si fanno più esperti nell’accontentare le nuove committenze e i soggetti si fanno diversi.

L’ultima parte della mostra di Londra era dedicata ai dipinti delle scuole di Calcutta, di Delhi e di Vellore nei primi decenni dell’Ottocento: grandi rappresentazioni topografiche ma soprattutto umane. Sono scene silenziose in cui riappaiono l’orizzonte e il paesaggio ma soprattutto è rappresentata la vita dei ricchi inglesi, i loro animali domestici, cavalli e cani, accompagnati da inservienti, muti anch’essi e dignitosamente in posa.

La serie dei sepoys, militari indigeni al soldo della Compagnia, con il loro repertorio di uniformi immacolate e variopinte, fa da contraltare a quella dei giovani appena reclutati dipinta per William Fraser: stupiti giovanotti, alcuni ancora scalzi, abbigliati sommariamente con panni tradizionali in cui sembra già covare il risentimento che porterà a metà del secolo all’ammutinamento.

L’album raccolto da Fraser, per il quale fu all’opera un grande pittore indiano dell’epoca, Guhlam Ali Khan, era destinato a documentare la conquista definitiva e la missione di cui la Compagnia e poi l’Inghilterra tutta si sentivano investite.

A porre fine a questo tipo di raccolte naturalistiche e di vita quotidiana non fu tanto la sanguinosa rivolta dei sepoys del 1857 quanto il contemporaneo arrivo della fotografia, che soppiantò i pazienti eredi della grande tradizione moghul.

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