«Madeyoulook», cercando di «riparare» la relazione con la Terra
Biennale Arte 60 Dal Sudafrica, «Quiet Ground», frutto della collaborazione fra da Nare Mokgotho e Molemo Moiloa
Biennale Arte 60 Dal Sudafrica, «Quiet Ground», frutto della collaborazione fra da Nare Mokgotho e Molemo Moiloa
«Madeyoulook» è una collaborazione interdisciplinare formata da Nare Mokgotho e Molemo Moiloa. Quiet Ground è il nome del loro progetto selezionato dalla curatrice Portia Malatjie per rappresentare il Sudafrica alla prossima 60/a Biennale di arte di Venezia.
La Biennale quest’anno dà grande enfasi ai Global South. Cosa vi aspettate?
Molemo Moiloa: Nella cornice di questo evento è piuttosto complesso mostrare un lavoro. Il modo in cui le persone interagiscono, la quantità di tempo che vi dedicano, il fatto che vedranno un milione di altre cose… A Documenta, la nostra proposta aveva un chiaro significato e siamo rimasti molto stupiti della generosità delle persone nel concederci il loro tempo. Il lavoro richiedeva 20 minuti. È una forma di resistenza al tipo di modello di iper-consumo di queste rassegne.
Nare Mokgotho: Siamo stati fortunati con Documenta perché dava enfasi alla relazione. È stato incredibile uscire con altri artisti per tre mesi, ascoltare come lavorano, leggere insieme, discutere, stampare libri. Stiamo ancora facendo progetti con molte persone che abbiamo conosciuto a Documenta. Venezia però impone questa rappresentanza nazionale.
Nel descrivere i vostri lavori fate spesso riferimento a «pratiche di vita quotidiana di persone nere in Sudafrica» ma anche alla de-familiarizzazione. Potete spiegare?
NM: Deriva dall’inquietudine nel vedere che le nostre vite, e quelle dei neri in generale, siano così sottorappresentate nella nostra istruzione. La sensazione che ciò che fa parte della tua vita non costituisca realmente conoscenza può essere dannosa. Così come saperlo legittimato da qualcuno che annuisce mentre parli, perché capisce cose che gli altri non sono in grado di vedere, è molto potente.
MM: Ci ispiriamo a Njabulo Ndebele Rediscovery the Ordinary e alla sua critica alle pratiche artistiche anti-apartheid: sono sempre state spettacolarizzate, sia in oppressione che in resistenza, e per questo non hanno permesso che l’arte esplorasse la vita ordinaria. L’idea allora è di utilizzare l’ordinario come spazio di potere, ma anche di profondità e bellezza.
NM: E di appartenenza.
In cosa consiste il progetto che presenterete a Venezia, «Quiet Ground?»
MM: Il nostro lavoro parla di riparazione. Attraverso storie di relazioni con la terra invitiamo a riflettere su come creiamo modalità di appartenenza, e come possiamo riparare le relazioni con un ambiente famigliare (territoriale e/o affettivo). Pensiamo alle relazioni con la natura, ai sistemi di conoscenza indigeni, e a come usare storie orali per creare questi legami. In particolare, ci interessa l’acqua.
NM: Abbiamo esaminato due siti storici. Dinokana un’area storicamente fertile divenuta arida in seguito alla deviazione delle sue acque per la costruzione di una township. E Bokoni, una regione non più esistente, che ha visto una serie di esodi, ma anche storie di ritorno. Abbiamo scelto questi due territori per riflettere sulla riparazione, perché le storie legate alla terra in Sudafrica sono in gran parte legate a rimozioni forzate.
MM: I cicli di violenza ed espropriazione della terra di cui parliamo non sono puramente coloniali, e quindi queste domande su cicli di riparazione non si adattano così facilmente alle semplici narrazioni che trattano la storia del Sudafrica come l’immagine dell’apartheid in bianco e nero. Ci sono reti molto complesse..
Ma il vostro lavoro è un’installazione sonora…
NM: Ci interessa il suono dal 2012, da quando abbiamo realizzato il Non-Monuments project in cui abbiamo lavorato con archivi sonori, creando una narrazione orale di persone sottorappresentate.
MM: Stiamo lavorando con canzoni in lingue bantu – Beti e Tswana. Se sei sudafricano, riconosci subito le canzoni, e conosci il loro significato politico.
Cosa vi entusiasma e cosa vi preoccupa di Venezia?
NM: Ciò che ci entusiasma è esplorare le potenzialità del suono, la risposta affettiva e registrare quale potrebbe essere la conclusione logica. È quello su cui stiamo lavorato da 14 anni: inserire la bellezza e l’affetto nell’opera concettuale.
MM: Il nostro lavoro non è solo espositivo. Cerchiamo di connetterci con il contesto locale, incontrare persone interessate a temi simili, gestiamo programmi e interagiamo con loro.
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