L’Ungheria agli ungheresi, ma un po’ anche ai lavoratori ospiti
L’Ungheria di Viktor Orbán non si è certo segnalata come luogo di accoglienza nei confronti dei migranti. Il premier danubiano ha dedicato molta parte della sua propaganda al contrasto all’immigrazione di massa verso l’Europa. Il tema occupa tuttora un’evidente posizione centrale nella retorica del governo di Budapest che, sappiamo, contesta da tempo il principio dell’erogazione dei fondi Ue alla condizione di ospitare migranti e profughi. Per Orbán e i suoi si tratta di un ricatto; ai loro occhi è inconcepibile che un paese debba essere obbligato ad accettare sul suo territorio genti di altra cultura, soprattutto senza aver sentito i pareri dei parlamenti e delle popolazioni interessati.
Sembra però che l’esecutivo arancione non disdegni di aprire le porte a centinaia di persone provenienti da altri paesi in qualità di “lavoratori ospiti”. Tutto questo a causa della scarsità di manodopera qualificata di cui lo Stato danubiano soffre e che viene sottolineata con preoccupazione dalle aziende locali e da quelle straniere operanti sul territorio nazionale. A dire il vero non si tratta di un problema recente, solo che è peggiorato col tempo dato che, secondo stime dell’OCSE, circa un milione di ungheresi ha lasciato il paese nel periodo compreso fra il 2008 e il 2018 per mete più interessanti sul piano delle condizioni di vita e di lavoro.
La loro scelta si è concentrata in particolare sugli stati dell’Europa nord-occidentale capaci di offrire ben migliori possibilità di impiego in termini di salario e di vivibilità nei posti di lavoro. Gli analisti che hanno seguito questo fenomeno sottolineano che questi migranti ungheresi sono generalmente persone provviste di titoli di studio e in grado di parlare una o più lingue straniere (non dissimilmente da numerosi siriani, afghani ecc., che hanno lasciato i loro paesi per destini ben più incerti).
Una decina di anni fa il settimanale ungherese di politica ed economia HVG aveva parlato anche di un’emigrazione motivata da aspetti di natura politica che vedevano protagoniste persone già dall’inizio in completo disaccordo col governo Orbán o da esso pesantemente deluse. Sta di fatto che l’Ungheria soffre da tempo di una seria scarsità di manodopera qualificata evidente soprattutto in settori quali la sanità, il turismo, la ristorazione, il comparto automobilistico e anche altri; da aggiungere che l’istruzione non se la passa meglio. Tanto che, nel 2018, il governo si era inventato una legge contestatissima sugli straordinari, detta poi “legge schiavitù” o “schiavista”, soprattutto per venire incontro alle grandi case automobilistiche tedesche operanti nel paese e capaci di un contributo considerevole al PIL nazionale.
Così, la scorsa primavera, il premier si sarebbe espresso sulla necessità di creare almeno mezzo milione di nuovi posti di lavoro, nei prossimi anni, anche ricorrendo alla manodopera straniera. Di fatto, sembra proprio che già molte aziende ungheresi cerchino sempre più spesso lavoratori stranieri e che la maggior parte di quelli che vengono assunti siano di origine asiatica. Tutto questo per colmare i vuoti lasciati da coloro i quali sono partiti e, a monte, da un sistema che ha scoraggiato molta gente a rimanere in patria.
Anche questa pratica, però, pone dei problemi che vengono descritti dalle organizzazioni sindacali. Le medesime fanno notare che i salari previsti per i lavoratori ungheresi e per quelli di altra provenienza sono uguali; solo che per questi ultimi i datori di lavoro devono pagare vitto e alloggio con la conseguenza che i prestatori d’opera ungheresi ci rimettono. Questo aspetto, dicono i sindacalisti, rende le trattative salariali particolarmente difficoltose. Si parla, comunque, di una legge che agevolerà l’ingresso dei lavoratori ospiti nel paese per facilitare e incrementare gli investimenti in vari comparti, ma il tema è spinoso e si prevede che i risvolti sociali di queste operazioni riescano poco graditi a diversi connazionali del premier.
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