Raccontare l’intimo profondo che mobilitò le donne e gli uomini della Resistenza nel tornante decisivo della nostra storia contemporanea è opera affascinante e difficilissima. Per farcela, evitando tanto l’uso della retorica celebrativa quanto la «mozione dei buoni sentimenti», si deve compenetrare il significato ed il senso degli avvenimenti che si rappresentano. Si devono conoscere a tal punto i nodi, le complessità e le questioni emerse ed intrecciatesi dentro le quattro guerre italiane del 1943-1945 (di Liberazione nazionale, civile, di classe e di genere) per riuscire a restituire la polisemica forma di un inedito assoluto nella storia delle italiane e degli italiani.

PER QUESTE RAGIONI il libro scritto da una storica di vaglia come Chiara Colombini, Storia passionale della Resistenza (Laterza, pp. 240, euro 20), si pone non solo come originale figurazione della lotta partigiana ma soprattutto come chiave di lettura in grado di portare chi legge a toccare quasi con mano l’anima di quella guerra clandestina, «irregolare» e costituente che fu la Resistenza. L’autrice, prima di tutto, disegna il perimetro del processo forse più importante della lotta partigiana ovvero la declinazione della misura della «Scelta» individuale che si risolve nell’incontro collettivo di una vasta minoranza plurale in uno spazio pubblico divenuto ignoto dopo il crollo dell’8 settembre 1943. Un ambito caratterizzato dal suo corollario di nuova sovranità personale, libertà di decisione ed emancipazione.

Da questo nucleo valoriale Colombini dispone a raggiera i sentimenti e le passioni che informano il corpo vivo di chi è immerso in quegli eventi. Si alternano in questo modo «l’urgenza» di combattere il nemico nazifascista; la paura collocata dentro il contesto della guerra totale che obbliga all’ingresso in un «interno notte» dove la morte viene data e ricevuta; l’amore che brucia dentro il fuoco di un tempo che ogni giorno può essere breve anzi l’ultimo e che pure, come scrive il gappista romano Franco Calamandrei a Maria Teresa Regard, porta alla convinzione di non aver sbagliato strada ed anzi «di non sbagliarla mai in avvenire con te vicino».

Nello scenario della guerriglia di montagna come in quella di città, Colombini coglie i nessi che tengono insieme gli umani spiriti di vendetta contro la barbarie nazifascista e l’incrollabile convinzione di chi, come il comunista torinese Luigi Capriolo, attraversa muto l’inferno della tortura degli aguzzini di Salò e del III Reich per non tradire il «severo dovere di militante politico: salvare i propri amici e compagni». Un impulso che diventa lucido scopo il 9 luglio 1944 quando i gappisti fiorentini guidati da Bruno Fanciullacci entrano nel carcere di Santa Vediana e liberano 17 partigiane: «in quel momento non ero più io – scrive Fanciullacci otto giorni prima di essere arrestato e di morire sotto tortura – ero trasformato dalla gioia così intensamente provata. I gappisti non dimenticano le loro compagne».

A TENERSI INSIEME sono tanto le preghiere del partigiano Antonio Orsi (che accompagnano il drammatico rastrellamento dell’aprile 1944 affrontato dalla formazione «Italia Libera» di Nuto Revelli) quanto le invettive di Giuseppe D’Alema «Alberto», che combatte tra Ravenna e Ferrara, quando scrive ad Arrigo Boldrini: «Fatevi onore e sputate in faccia ai borghesi che sono già in azione a compromettere il sacrificio dei partigiani». Sono parole scritte o pensieri recitati che esprimono ansie e timori, slanci e difficoltà, che rendono ancora più umane e straordinarie queste figure.
L’autrice è capace di inoltrarsi con sensibilità anche lungo le sottili linee di confine che separano dentro uno stesso corpo due destini diversi.

È il caso di Arnoldo Azzi che «mezzo morto per le torture» fa il nome di D’Alema ma che è, nello stesso tempo, colui che proprio al partigiano “Alberto” – scrive Colombini – «ha ceduto la bicicletta (durante una fuga dai fascisti) salvandogli la vita e perdendo la propria». La storia passionale che l’autrice ci propone varca una soglia nuova degli studi sul tema e colma la distanza temporale dalla Resistenza attraverso la restituzione di quella sua umanità che ne rappresenta il precipitato storico e l’eredità ineludibile.