L’oro che luccica poco. Nei Giochi di Michael Phelps, cinque ori, un argento e la patente a tempo indeterminato per l’immortalità o di Usain Bolt che tra 100 e 200 metri scava un altro canyon tra sé e i bipedi che corrono contro il cronometro, a breve ci sarà anche il successo di Team Usa, la nazionale di basket.

Oggi in campo contro la Spagna di Pau Gasol, la password per la finale dopo un filotto di successi senza aver mai fatto scoccare la scintilla nei tifosi e negli appassionati della palla a spicchi. Sono i più forti, ci sono tre-quattro marce in più rispetto agli avversari nonostante l’assenza di Lebron James, Steph Curry, Chris Paul, ma emozionano poco. Anzi, non emozionano per niente.

Forse una questione di linguaggio del corpo da parte degli americani che stimola la parte istintuale che è in grado di generare lo sport, che impone di scegliersi un favorito e un nemico davanti alla tv, al bar o sugli spalti. Gli americani non tirano, non piacciono. Anche se vincono.

L’altra notte la squadra guidata da Mike Krzyzewski ha superato in scioltezza l’Argentina di Manu Ginobili, quasi 30 punti di scarto. E Kevin Durant, asso dei Golden State Warriors: ha mostrato al mondo che dopo Lebron James è il più forte ad avere a che fare con l’arancia, con una pioggia di triple, specie nel primo tempo. Ma il pubblico di Rio de Janeiro, oltre alla sezione degli aficionados argentini, si è scaldato solo per omaggiare la fine della Generaciòn Dorada, il gruppetto di fenomeni che ad Atene 2004 vinceva l’oro in finale contro l’Italia di Pozzecco, Basile e Galanda ma che soprattutto rimandava negli States proprio la nazionale guidata allora da un guru della Nba, coach Larry Brown, con Shaquille O’Neal, Tim Duncan, Allen Iverson, il 20enne Lebron James e altri assi sbarcati all’ombra del Partenone in una missione fallimentare.

Erano gli argentini, un po’ come i sovietici – quel formidabile concerto di lituani, russi, moldavi, ucraini che avrebbero potuto giocarsela con i migliori della Nba, in un mondo senza eccessivi intrecci tra sport e politica – trascinati da Arvydas Sabonis a Seul 1988 contro la nazionale a stelle e strisce, a spingere gli americani a rimettere le cose a posto, spedire atleti motivati a vincere l’oro, con Krzyzewski in panca, due ori in fila, Pechino e Londra, sino al sicuro tris, tempo un paio di giorni.
Dunque, ovazione, pubblico in piedi per Ginobili, in lacrime quando è stato richiamato in panchina nell’ultimo quarto, a match ai titoli di coda, all’ultimo tango in nazionale; come Luis Scola, Andres Nocioni, protagonisti anche nella Nba (per Ginobili quattro titoli nei San Antonio Spurs e un posto già al caldo all’Hall of Fame). I i vari Durant, Carmelo Anthony, Klay Thompson, De Marcus Cousins parevano tanti cervi in tangenziale nella partita dominata in lungo e largo, tranne nei primi minuti in pantofole, in cui i sudamericani erano scappati avanti di dieci punti.

Ora tocca agli spagnoli allenati da Sergio Scariolo, altro formidabile gruppo, praticamente lo stesso che ha vinto gli Europei 2015, tra Gasol, El Chacho Rodriguez, che si gioca una medaglia dopo anni di onorato servizio sul parquet e un percorso in crescendo dopo due sconfitte iniziali.

E in finale anche una tra Serbia e Australia, che hanno dato filo da torcere agli Usa nella fase preliminare del torneo, successi di stretta misura e mai quella sensazione non solo di grandezza (non solo il Dream Team, mai avrebbero potuto esserlo) ma di empatia con l’evento a cinque cerchi. Quasi fosse un dovere, non il piacere più assoluto per chi indossa la canotta, salire sul gradino più alto del podio ai Giochi.