L’ultimo dei Juma ucciso dal Covid e dallo Stato
Brasile Se ne va a 86 anni Amoim Aruká, ultimo esponente maschio di un popolo falcidiato dai massacri. Restano solo le sue figlie. Il dolore delle associazioni indigene brasiliane: «Il governo lo ha assassinato come ha assassinato i suoi antenati»
Brasile Se ne va a 86 anni Amoim Aruká, ultimo esponente maschio di un popolo falcidiato dai massacri. Restano solo le sue figlie. Il dolore delle associazioni indigene brasiliane: «Il governo lo ha assassinato come ha assassinato i suoi antenati»
Una perdita «devastante e irreparabile»: così il Coordinamento delle organizzazioni indigene dell’Amazzonia brasiliana (Coiab) ha definito la morte del guerriero Amoim Aruká, ultimo esponente maschile del popolo Juma, ucciso mercoledì dal Covid-19, all’età di 86 anni.
Aruká lascia tre figlie, uniche sopravvissute a una serie di massacri che nel corso del tempo hanno ridotto un popolo composto nel XVIII secolo da 15mila persone a un gruppo di cinque nel 2002.
L’ultimo massacro era avvenuto nel 1964, sul rio Assuã, nello Stato di Amazonas, a opera di commercianti di Tapauá, che, interessati alla produzione di noce amazzonica in territorio Juma, avevano assoldato pistoleiros perché eliminassero gli indigeni.
Erano sopravvissuti solo in sette. Più di 60 corpi erano stati trovati a pezzi nella foresta, a fare da cibo per i cinghiali. Tapauá era stata così liberata da «queste bestie feroci», secondo la trionfale espressione di un commerciante.
Sopravvissuto al massacro, Aruká non si era arreso, lottando per la demarcazione e l’omologazione del suo territorio, ottenuta nel 2004. Da allora il piccolo gruppo era tornato a crescere grazie al matrimonio delle sue figlie con dei membri dell’etnia Uru-Eu-Wau-Wau, anch’essa di lingua Tupi-Kagwahiva, e alla nascita di bambini con il sangue dei due popoli. Finché non ci ha pensato il governo Bolsonaro a sferrare l’ultimo colpo.
Proprio a causa della sua estrema vulnerabilità, il popolo Juma era tra quelli per cui il Supremo tribunale federale aveva disposto l’installazione di barriere sanitarie, come richiesto dalla Coiab e dall’Apib (Articolazione dei Popoli indigeni del Brasile). Ma quella barriera sul rio Assuã, che doveva essere montata entro il settembre dello scorso anno, non ha mai visto la luce.
Lo scorso dicembre, il governo si era deciso appena per un posto di controllo dell’accesso alla BR-230, l’autostrada trans-amazzonica, il cui funzionamento, malgrado gli appelli, non era oltretutto mai stato verificato.
«L’ultimo guerriero sopravvissuto del popolo Juma – commenta ora amaramente la Coiab – è morto. Ancora una volta, il governo brasiliano si è rivelato, in maniera criminale, negligente e incompetente. Il governo ha assassinato Aruká, così come ha assassinato i suoi antenati».
E di una perdita «lacerante» ha parlato anche la coordinatrice dell’Apib Sonia Guajajara, denunciando «un genocidio dimostrato, ma mai punito»: «Con la morte di un popolo, muoiono la sua scienza e la sua memoria. Perde l’umanità e perde il nostro futuro. Lo Stato deve essere considerato responsabile di tale crimine e di tale irresponsabilità». Come pure della morte per Covid di altri 965 membri di comunità originarie, secondo gli ultimi dati diffusi dell’Apib.
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