Occultamento di patrimonio, riciclaggio di denaro e falsificazione di documenti per il possesso di un appartamento al mare registrato a nome di un’impresa. Queste le accuse formalizzate contro Lula da Silva dalla magistratura brasiliana, che ne ha chiesto l’arresto preventivo. L’ex presidente, che ha terminato il secondo mandato nel 2011 e che ha deciso di ripresentarsi alle presidenziali del 2018, ha dichiarato di non aver nulla da temere e ha presentato ricorso presso il Tribunal Supremo Federal (Stf): per chiedere la sospensione delle indagini fino a quando non sarà risolto il conflitto di competenze tra i due tribunali che lo perseguono. Il 4 marzo, il popolare leader del governativo Partito dei Lavoratori (Pt), è stato trascinato in caserma e interrogato per ore dalla Polizia federale, nell’ambito dell’inchiesta Lava Jato, la «tangentopoli brasiliana».

Un eccesso che ha provocato proteste e scontri tra sostenitori e oppositori, e una grande ripercussione a livello internazionale. Con Lula si sono schierati i presidenti progressisti dell’America latina, i movimenti popolari e le sinistre, che vedono nell’operazione un tentativo di neutralizzare Lula dalla competizione politica e di dar forza alla denuncia di impeachment contro la presidente Rousseff. L’inchiesta per tangenti e finanziamenti illeciti ai partiti, che coinvolge la petrolifera di stato Petrobras, ha interessato politici di tutti gli schieramenti e ha portato alla condanna in primo grado (a 19 anni) dell’imprenditore Marcelo Odebrecht, nipote del fondatore dell’omonima impresa costruttrice, la più grande dell’America latina.

Il teorema dei giudici – «lo schema» – si basa sulle dichiarazioni dei pentiti, che vengono favoriti in base a una recente e apposita legge, che sta devastando il sistema garantista brasiliano. Tanto che più d’un analista ha parlato del pericolo di una «dittatura giudiziaria» a fini politici. Un fenomeno governato dai grandi poteri sovranazionali e che sta interessando altri stati della regione, a cominciare dall’Argentina. Le forze conservatrici, tornate in campo nel nuovo ciclo economico, mirano a chiudere nel fango il ciclo progressista iniziato nel 1998 con la vittoria di Hugo Chavez in Venezuela. E puntano in alto, usando l’arma del discredito, dell’impeachment o del «golpe istituzionale». In tutto il Sudamerica, serve soprattutto una leadership che volti le spalle ai rapporti sud-sud e sappia governare i grandi affari impostati dall’Accordo Transpacifico realizzato dagli Usa (Tpp) o in via di realizzazione in Europa con il Ttip.

La nuova tappa inaugurata dal giudice Sergio Moro, gran frequentatore dei media, è denominata Aletheia (rivelazione). Le «rivelazioni», hanno cominciato ad apparire sui grandi giornali brasiliani a marzo del 2013, mentre Lula girava per il mondo a spiegare i termini del «miracolo brasiliano». E il suo spettacolare fermo si è realizzato dopo l’ultima valutazione economica assai negativa per il Brasile. E così, mentre vengono sbattuti in prima pagina i corrotti del Pt (un partito da gran tempo in crisi di valori) si nasconde l’entità a vasto spettro del fenomeno, che, secondo i pentiti, nel 2002, ha interessato anche l’allora governo di Henrique Cardoso.