Al verso 11 del sonetto 64 Shakespeare enuncia il grande tema: «Ruin Hath Taught Me Thus to Ruminate» («La rovina mi ha insegnato così a rimuginare», traduzione di A. Serpieri, 1998). Le rovine di Roma, i giganteschi frammenti risaliti dallo scavo in terra italiana o inglese, sono la traccia che Maria Del Sapio Garbero segue e orna di brillanti scoperte che arricchiscono il percorso ermeneutico. L’ intreccio di altri saperi, di altri luoghi e tempi – l’archeologia, l’anatomia, l’antropologia, il Rinascimento italiano, il nuovo storicismo – giustificano questo speciale recupero: Shakespeare’s Ruins and Myth of Rome (Routledge, serie «Anglo-Italian Renaissance Studies» a cura di Michele Marrapodi, pp. 388, £ 145,00). Con brevi presentazioni di John Gillies e Stephen Greenblatt, esauriente introduzione della stessa autrice, bibliografia e indice di autori e motivi. In apertura e chiusura illustrazioni di Igor Mitoraj, e altre di varie epoche.

Lo Shakespeare tribale ha inscenato il banchetto cannibalesco del Titus Andronicus, primo dei drammi «romani», celebrando la translatio imperii, la fine della Roma imperiale. Dalla futura Britannia di William Camden prenderà le mosse la recente ricerca storicistica (Greenblatt, Adelman, James). Di più ampio respiro il poemetto The Rape of Lucrece, che in una dimenticata versione italiana serba il fascino del verso «pittorico»: «I suoi capelli, simili a fili d’oro, si trastullavano con il suo alito, oh casta lascivia, lasciva castità! Essi mostravano il trionfo della vita pur in una apparenza di morte, e l’ombra della morte nell’eclissi della vita. E l’una e l’altra nel suo sonno trovavano una tale armonia, come se tra di loro non vi fosse mai stata alcuna tenzone, e come se la vita vivesse nella morte e la morte nella vita» (G. Baldini, 1964).

Secondo Del Sapio l’ekphrasis di Lucrezia non è un saggio di anatomia, ma la personificazione della stessa Anatomia, «dea che si auto flagella e che flagella», i cui simboli nella nascente cultura moderna erano lo specchio e il coltello. Il suicidio compiuto dalla vittima è gesto patriarcale, ma anche atto rituale di liberazione.

«Anatomizzare il corpo di un re. Conoscenza, cospirazione e spettralità nel Giulio Cesare» è il tema del terzo capitolo di questo libro che si vale anche della riflessione di antropologi culturali e di storici come Benjamin e Foucault. La compresenza e la ricchezza di «discorsi universali» fanno del teatro di Shakespeare «la spettrale ricostruzione delle concrete rovine, l’impellente senso di perdita e di crisi a loro congenito che rende problematica la percezione della realtà stessa» (traduzione mia). Le fonti storiche classiche – Livio, Tacito, Cicerone, Seneca, Plutarco, Ovidio – si presentano come congerie, frammenti, in ordine spezzato e in se stesso intraducibile-incoerente in Cymbeline, sebbene secondo Robert Miola: «Roma sia presente …» e definisca il nuovo spazio dell’antica Britannia.

Solo un altro corpo perturbante, quello di Coriolano, offre una ambigua ma potente variante che prepara la coppia eroica di Antonio e Cleopatra. Smemorato, stanco, una macchina di guerra, respinto dalla madre, Coriolano è «cosa di sangue». «Portentoso», attraente rappresentate della virtus romana, tuttavia «nel dramma di Shakespeare è piuttosto un corpo che si costruisce come oggetto riluttante a essere materia di scambio. Coriolano rimane indigeribile nell’affamato e vorace contesto drammatico…» (traduzione mia). Generazioni e generazioni hanno calpestato Roma ed Egitto, le loro rovine sono ridotte in polvere. I due amanti sono ormai inconoscibili, come nella scultura di Mitoraj: due tronchi che si fronteggiano, senza volto, in mostra permanente sullo sfondo delle rovine di Pompei. Ma la pietas shakesperiana ammanta le due morte, Lucrezia e Cleopatra, che hanno riscattato la vergogna pubblica con il suicidio. Ci riporta alla cronaca nera di oggi il suicidio della diciassettenne Alice Schembri, il 18 maggio 2017 ad Agrigento. «In rete c’è il video del mio stupro» (la Repubblica, 17 febbraio 2023).