«Un anno e mezzo fa facevo parte delle avanguardie che hanno liberato i villaggi a nord di Kharkiv» dice Kostantin, sergente di un’unità di supporto ucraina nei pressi del fronte, «siamo stati noi a issare la bandiera ucraina a Lyptsi». Indica con la mano verso nord due colonne di fumo denso e nero e scambia una rapida valutazione balistica con un commilitone, poi riprende: «Pensavamo davvero che stesse per finire, i russi venivano ricacciati indietro su tutta la linea del fronte, a volte si ritiravano senza neanche combattere. Ora siamo di nuovo qui, a volte mi sembra uno di quegli incubi in cui devi sempre ricominciare…».

KOSTANTIN e la sua unità sono di stanza a Rubizhne, dove il fiume Severskij Donec disegna una lunga “S” e si stringe. C’era un ponte, ma gli ucraini l’hanno fatto saltare. Stabilire una testa di ponte sul fiume permetterebbe ai russi di aggirare il grosso delle difese ucraine, coglierle alle spalle, creare un collegamento diretto tra Vovchansk e Lyptsi, i due luoghi dove stanno concentrando la loro offensiva terrestre.

PER RAGIONI OPPOSTE gli ucraini non possono permettersi di cedere e l’unità di Kostantin, come tante altre, è stata dislocata qui proprio per questo. «Siamo un po’ più arretrati rispetto alle prime linee, non dormiamo sempre nello stesso posto, poi quando ci chiamano andiamo». Può capitare a qualsiasi ora, gli uomini fanno costanti turni alla radio. Capita spesso che li chiamino?. «Fino alla settimana scorsa anche 2 o 3 volte al giorno, ora meno». Quindi è vero che la situazione a Lyptsi è stabilizzata, come dice Zelensky? Ascoltare il nome del presidente fa sorridere un soldato, altri due dicono qualcosa di incomprensibile, ma non rispondono. Kostantin riprende: «Per ora sì».

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La loro dotazione è costituita da un grosso pick-up con una mitragliatrice pesante montata nel cassone e due vecchie Lada. Hanno normali Ak-47, qualcuno la versione potenziata da 74, giubbotti antiproiettili ordinari e nessun dispositivo particolarmente tecnologico. Ma avete abbastanza armi ora? «Chi può dirlo, se i russi decideranno di avanzare allora lo sapremo. Diciamo che per svolgere i nostri compiti quotidiani ne abbiamo».

VANIA SLACCIA la copertura cerata della mitragliatrice per mostrarmela. «È bella, eh?». Mima di sparare verso i russi mentre li insulta e tutti ridono. «È americana?» chiedo senza averne idea. «No, ucraina». È una vecchia mitragliatrice sovietica da 12,7mm riadattata. Armi occidentali loro non ne hanno. «Ma su questo fronte ce ne sono molte». Forse gli Atacms (gli ultimi lanciarazzi multipli a media gittata forniti dagli Usa)? Vasilij, il più anziano del gruppo, risponde «grazie a Dio sì». «Ma tu devi spiegarmi una cosa» continua, «perché i russi possono colpirci da ogni maledetto centimetro di terra e noi non possiamo distruggere le loro batterie oltre la frontiera?». «Sì, questa è una regola da idioti» approva Kostantin seguito da lunghi cenni d’intesa dei suoi uomini. «Hanno capito che qui moriamo per colpa di quei missili?» riprende Vassilij. «Guarda il centro commerciale di Kharkiv: se gliela bombardavamo, quella base, col cavolo che i Sukoi russi si alzavano in volo tranquilli a uccidere la nostra gente. Ti sembra giusto?».

IL RESTO della conversazione è un copione sentito mille volte: non vogliamo una guerra mondiale, ma la Russia non si fermerà in Ucraina, non credo che Putin sia così folle da attaccare la Nato eccetera. I militari difficilmente sentono ragioni e hanno una teoria universale, sposata quasi all’unanimità. Ma loro sono in guerra e sono soldati, si capisce. La domanda vera sarebbe: e noi, in Occidente, perché ragioniamo allo stesso modo?

Una comunicazione via radio interrompe la conversazione: «Droni!». Scivoliamo nella trincea e subito nella casetta di legno mimetizzata da teli. E aspettiamo. «Se hai il gps del telefono acceso spegnilo subito» dice Konstantin, perentorio. Ogni tanto qualcuno fa una battuta per stemperare, «tanto i droni sono sordi, hanno occhi d’aquila ma niente orecchie» spiega Vassilij, «puoi pure cantargli una canzone di Toto Cotugno se vuoi» e intona Lasciatemi cantare, pezzo che nei Paesi ex-sovietici tutti conoscono.

QUANDO FINALMENTE abbiamo l’autorizzazione a uscire arriva il tenente, un ragazzo biondissimo e massiccio con la faccia da bambolotto e una barbetta rada. Sull’uniforme porta uno strap con le bandiere Usa e ucraina intrecciate. Domando se è americano: «Sì, di New York». Tutti ridono e ci metto un po’ a capire che parla del villaggio omonimo del Donbass. Devono partire, li hanno chiamati. Chiedo a Kostantin di portarmi con loro ma rifiuta: «Non ti preoccupare, tanto non finisce domani».