Pavel fa lo spazzino a Kharkiv. Ha 24 anni, una zazzera fulva che gli cade di lato sull’occhio destro, gli occhiali con la montatura spessa e si muove dinoccolato tra un secchio e l’altro. Suonano gli allarmi ma lui continua a svuotare cestini e a spruzzare detersivo da una bottiglietta con il tappo bucato sulle macchie delle panchine. Piano, quasi senza far rumore. Non sbatte mai i coperchi dei secchi e si guarda intorno con le spalle incassate e lo sguardo talmente imbronciato da sembrare un cavallo.

LO INCONTRO nel parco Shevchenko, di fronte allo zoo cittadino che, nonostante tutto, resta aperto anche di questi tempi. Attira l’attenzione perché è completamente diverso dai ragazzoni duri che sono in guerra o si agghindano come se lo fossero. «Come va?», chiedo. «Bene», risponde lui un po’ allarmato e iniziamo a parlare.

Per tutto il tempo che mi dedica non toglie mai la mano destra dal carrellino del comune che gli serve per fare il suo lavoro. Non riesco a nascondere per molto la mia principale curiosità: come si sente a stare qui a raccogliere cicche di sigaretta per terra mentre i suoi coetanei sono arruolati e parlano solo di guerra? «È un lavoro», risponde lui. «Sei contrario alla guerra?», insisto. «La guerra è una merda. Potevano lasciarci in pace e invece no – si guarda di nuovo intorno – Hanno dovuto mettere su tutto questo casino».

Non è chiaro con chi ce l’abbia e gli chiedo spiegazioni. «Come chi? I russi. Chi è che ci ha invaso, scusa?». Ma allora perché non fa qualcos’altro? «Tipo?», risponde sforzandosi di capire. «Avrai tanti amici nell’esercito, no?». «Non tanti a dire la verità…». Ma come, sembra che i giovani in Ucraina non facciano o non parlino d’altro e le risposte di Pavel mi fanno sentire quasi come se stessi parlando di un’altra realtà. «Non so, i tuoi compagni di scuola, i tuoi vicini?», riprendo.

«Sì, quelli sono quasi tutti con l’uniforme e la loro è di sicuro più bella della mia». Mi rattrista quella frase ma lui ci rimane male per il fatto che non rido, «scherzavo eh?». E non ha mai pensato di fare il volontario come fanno molti che non vogliono arruolarsi? «Ma io non ho mica problemi con l’esercito».

QUINDI, penso, preferisce davvero stare qui a sostituire le buste di plastica dei secchi piuttosto che fare altro? Non che fare il soldato sia meglio che fare lo spazzino, mi incuriosisce sapere se non si sente escluso da questo contesto di impegno per la patria e sofferenza collettiva. Alla fine della guerra, penso, parleranno per anni, per generazioni, di cosa hanno fatto durante il conflitto e Pavel cosa racconterà: «Io facevo lo spazzino a Kharkiv»?

«Lo fai da tanto questo lavoro?», riprendo per dire qualcosa. «No, da poco dopo l’inizio della guerra. Molti posti si sono liberati perché la gente partiva e allora ne cercavano altra…mia madre è venuta a saperlo da una vicina». «Non per il tuo lavoro – provo a girarci intorno – ma per il momento che l’Ucraina vive, non ti viene voglia di fare altro? Anche perché qui è pericoloso, magari mentre fai il tuo turno può cadere un missile o esserci un incidente».

Si guarda intorno con la stessa aria furtiva di prima, «non so, al comune sono tranquilli con me». Mi viene un dubbio: «Ma ti hanno mai richiamato dall’ufficio militare?». E infatti: «Non posso essere soldato io, sono autistico».

Vorrei seppellirmi per aver insistito così tanto, ma è lui a trarmi d’impaccio: «Non sono matto eh, è solo che non riesco a stare fermo nello stesso posto troppo tempo e a volte devo fare per forza delle cose…immagina nell’esercito che casino avrei fatto. Magari dovevamo stare in silenzio perché c’era il rischio di essere scoperti dai russi e io iniziavo a urlare».

STAVOLTA RIDO di gusto, anche per aver scaricato la tensione e Pavel mi sorride bonario. A questo punto gli chiedo se quando bombardano gli fa un effetto strano «cioè, più strano…». «Ho capito che intendi – mi aiuta lui – dipende, in genere no, mi sono abbastanza abituato anch’io come tutti. Ogni tanto però devo continuare a camminare finché non mi calmo e allora mi dimentico anche dei cestini».

Suona di nuovo l’allarme, dagli altoparlanti del parco trasmettono il solito messaggio con l’invito a recarsi al rifugio più vicino. «E ai rifugi ci vai mai?», gli chiedo. «Quando sono al lavoro no, i primi tempi a casa però dovevamo andarci per forza, anche per fare compagnia a mia madre che sennò doveva stare da sola per nottate intere, non ho mai dormito lì sotto».

Prima di salutarlo gli dico che forse scriverò qualche riga sulla nostra conversazione. «Basta che non mi fai passare come uno fuori di testa», dice lui senza staccare la mano dal carrellino per incontrare la mia che gli avevo porto. «Ah, scusa», dice. Appoggia l’altra, mi stringe la mano, cambia di nuovo impugnatura e riparte, guardandosi intorno e senza far rumore.