«Luce», ossessioni tra sogni di libertà e voglia di ribellarsi
Locarno 77 In concorso a Locarno 77 il film firmato da Silvia Luzi e Luca Bellino
Locarno 77 In concorso a Locarno 77 il film firmato da Silvia Luzi e Luca Bellino
Lo sguardo del Leopardo sinuoso, vagamente enigmatico rimbalza dalle pareti negli allestimenti della Sopracenerina, il palazzo centro del festival laddove ci si incontra, si beve un caffè, si cerca disperatamente la connessione wi-fi per prenotare i biglietti (no app questa edizione avverte il sito), sfilano registe, registi, interpreti per interviste o photocall, ci sono le conferenze stampa dopo la proiezione. Locarno numero 77 – «Ho l’età del festival» si giustifica una signora che non riesce a trovare il suo biglietto all’entrata del Rex, la sala della retrospettiva The Lady with the Torch (ovvero la Columbia Pictures) lasciando stupiti tutti – e ai complimenti lei sorride flatteuse. Sul lago scivolano le canoe dei vacanzieri e mentre l’afa addormenta il pomeriggio i festivalieri circolano da una sala all’altra fermandosi qua e là per organizzare le proiezioni del giorno. Il festival è iniziato con ottimi numeri, Piazza Grande gremita e grandi attese. Fra le star c’è anche Irène Jacob – che riceverà il Leopard Club Award.
SUL SITO del festival, ripercorrendo la sua carriera racconta Shikun, il film girato con Amos Gitai e presentato alla scorsa Berlinale – e Jacob è anche nel nuovo lavoro del regista israeliano, che sarà alla Mostra di Venezia, Why War: «È stato girato in Israele durante le proteste del 2023 contro la riforma giudiziaria del governo Netanyahu. Per puro caso è uscito in sala dopo il 7 ottobre e l’inizio della guerra a Gaza, nonostante ciò, Shikun portava già in sé i segni di tutto quello che sarebbe successo dopo. Eravamo perplessi all’idea di proiettarlo a Berlino]quando il conflitto era al suo culmine, quindi abbiamo chiesto ad Amos se non fosse meglio datare il film in modo più preciso. Ma lui ci ha risposto: “Non si può mettere una data a un film, i film devono essere atemporali. Vengono creati in un momento specifico, ma quel momento contiene in sé i germi del passato e quelli del futuro»|.
Ieri in concorso è arrivato Luce, il primo dei due film italiani che corrono per il Pardo d’oro – l’altro è Sulla terra leggeri di Sara Fgaier – firmato da Silvia Luzi e Luca Bellino autori nel 2017 di Il Cratere che era stato presentato alla Settimana della critica di Venezia curata allora dal direttore di Locarno Giona A.Nazzaro. E a quel film Luce – che vede i registi anche autori della sceneggiatura e del montaggio – è quasi speculare, in «corrispondenza» nel porsi sui bordi di un’ossessione giocata sul rapporto fra una figlia e un padre/patriarca al quale sembra impossibile sottrarsi. Che se nel primo si determinava nell’eccesso di presenza con l’ambizione di fama da cantante per la figlia femmina che l’aveva trasformato in un carceriere, qui è disegnata dall’assenza, la quale produce però un uguale effetto. Il padre della giovane protagonista – Marianna Fontana – è una voce al telefono (di Tommaso Ragno), forse non esiste neppure, non ha un volto né un luogo in cui essere collocato; è un sussurro, un respiro roco, una promessa fasulla ma ancora così violenta da condizionarne la vita.
La scelta narrativa che gli autori mettono in campo, è quella di un’ellissi che rifugge le spiegazioni. Chi è la protagonista? Forse una suggestione o un fantasma
LA SCELTA narrativa che gli autori mettono in campo, con maggiore evidenza dell’opera precedente è quella di un’ellissi che rifugge le spiegazioni, ciò che c’è prima in quel personaggio sempre davanti all’obiettivo per lasciare un terreno (di battaglia?) del possibile di cui ciascuno può riempire le fratture. E allora chi è Luce? Chissà. Neppure la ragazza che nessuno chiama, forse una suggestione, un altro fantasma come la sua gatta Molly che a un certo punto scompare. La certezza è che quella giovane donna è piena di tormenti, lo capiamo subito, dal viso stanco nella foto ricordo alla festa della comunione di una cuginetta. Il fotografo sembra esserne attratto, alludere a qualcosa, ma lei guarda solo il suo drone, pensando che potrà con quello strumento arrivare in un altrove interdetto, al suo desiderio, a ciò che cerca.
MA COSA? Magari le ragioni che sembrano averla disseccata; non ha amici, amori, amanti.Le piace ballare da sola, la sera dopo il lavoro, ore alla catena di una conceria, le mani sporche, le chiacchiere con le altre donne al panino della pausa, probabilmente una paga di schifo senza troppi diritti o sindacalizzazioni. L’orizzonte è un sud col mare svuotato di poesia, sfruttamento, silenzio, i tempi delle lotte comuni sono un passato remoto. Anche se qualcosa accade nella ruvidezza dei rapporti, un legame, una complicità, una qualche amicizia di attenzione. E quel padre? Chiama, parla, promette, minaccia. Ma è una voce, può (e vuole) essere chiunque nella categoria del «Padre», un bagaglio del passato cercato e insieme odiato, un qualcosa chiusa in una stanza mai più aperta della casa che sembra soffocarla ancora di più, in un reale che sfugge impazzito da ogni parte, che si fa immagine e riflesso per evaporare chissà dove.
Di questa materia Luzi e Bellino cercano una forma (cinematografica) che appunto lavora in sottrazione rispetto alle convenzioni di un paesaggio che potrebbe diventare subito riconoscibile e che loro sembrano invece voler rendere indistinto ma pure marcato, fatto di chiaroscuri senza la luce del titolo, di sofferenza, quasi di follia in una dimensione privata di sogni e di libertà, che non lascia vie di fuga ma che cerca una sua possibile rivolta. È la scommessa non semplice che si danno, e che affrontano a partire dalla fisicità di Marianna Fontana, la compongono sugli scarti invisibili del suo volto, dei suoi gesti, nei primi piani che «intrappolano» come quel mondo e al tempo stesso aprono degli spiragli a emozioni mai dette. Che sguardo è dunque quello di Luzi e Bellino? Nelle note di regia affermano di avere cercato una «storia di pelle di voce e fatica dove tutto è reale ma non tutto è vero». La affrontano con detour che si disegnano fra nuche, corpi, traiettorie o in apparenza lineari che invece soo false piste, sviano fino a tradirsi. Gli inciampi fanno parte delle ricerca, il rischio si assume. Di certo loro non si tirano indietro.
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