Una scena da “The Invasion”

Una donna raccoglie in silenzio i mattoni della casa distrutta dal bombardamento russo e li posa uno sull’altro nel tentativo di ricostruire da sola le mura. Alla fontana alcuni fanno la coda per l’acqua, altri davanti alla mensa popolare aspettano un piatto di minestra. Nel sottosuolo si fa lezione ai bambini improvvisando la normalità di una scuola. Qualcuno si immerge in un lago gelato senza curarsi degli allarmi aerei. Un soldato vestito da Babbo Natale fa sorridere i più piccoli, un giovane uomo anche lui in uniforme festeggia il suo matrimonio. Da qualche parte si piange un caduto al fronte. The Invasion è il nuovo film di Sergei Loznitsa, ucraino che vive da tempo a Berlino, e che nel suo cinema mette al centro la storia e il presente – non solo del suo paese – rendendolo uno strumento di indagine, riflessione, resistenza.

Qui sin dal titolo tutto è chiaro: siamo nell’Ucraina della guerra contro l’invasione russa di cui il regista vuole testimoniare le conseguenze nel quotidiano attraverso una serie di immagini girate in luoghi chiave del territorio ucraino e del conflitto nel corso di due anni, con una piccola troupe, lasciando fuori campo le battaglie e il nemico per concentrarsi sul vissuto degli ucraini. «Mi interessava la vita delle persone in questa situazione: quale è stato l’impatto della guerra su di loro? Trasmettere cosa significa affrontare l’esperienza di un’invasione è molto più complesso che mostrare scene di battaglia, ci volevano immagini forti, in grado di restituire dei momenti chiave» spiega Loznitsa. Come quando a un certo punto si vedono i libri degli autori russi, Puskin, Dostoevskij, gettati via con rabbia nelle discariche. «La distruzione non riguarda soltanto le cose materiali, la gente è colpita nell’animo, nella psiche. È assurdo che la guerra cambi il nostro sguardo su Dostoevskij» spiega il regista che all’inizio del conflitto per avere espresso una posizione critica sul boicottaggio contro la Russia era stato espulso dall’Unione dei registi ucraini. Lo incontriamo il giorno dopo la proiezione ufficiale di The Invasion.

La redazione consiglia:
Sulla devastazione della guerra lo sguardo dolente di LoznitsaL’Ucraina sembra oggi in grande difficoltà al fronte, negli ultimi mesi l’impressione è che l’iniziale supporto dell’occidente non sia più così compatto. Lei cosa ne pensa?

La risposta è semplice, ci sono due scenari possibili: o l’occidente smette di sostenere gli ucraini, che resisteranno da soli finché possono, forse molto poco. O è dalla loro parte e gli permette di difendersi per un periodo più lungo e di contenere l’invasione russa. L’Ucraina farà di tutto per non capitolare ma l’Europa sembra non comprendere che se la Russia vince dopo potrà bussare alla sua porta – e non sarà fra troppo tempo. Gli stati europei sottovalutano la minaccia, pensano che non li riguardi mentre i russi guardano già alla Polonia o ai paesi baltici. Purtroppo finché non accadono le cose sembrano impossibili e quando se ne prende coscienza è tardi. Inoltre la guerra ha già un impatto sulla vita europea almeno sul piano economico, in Germania dove vivo è molto forte.

Come è iniziato il progetto di «The Invasion»?

Ho cominciato a lavorarci due anni fa, era stato pensato come una raccolta di cortometraggi che doveva andare in onda su Arte francese. L’idea era di diffonderli in tempo reale. Vista la grande quantità di materiali abbiamo pensato di realizzare il lungometraggio, il cui obiettivo era appunto raccontare il vissuto degli ucraini durante l’invasione. Alla fine avevamo circa duecento ore di girato che veniva montato man mano che lo ricevevamo.

Possiamo dire che questo film rappresenta un archivio della guerra.

Certo, ma tutto ciò che viene girato diventa subito un archivio. Probabilmente ne realizzerò una seconda parte, è un lavoro che continua, che vuole essere una memoria di questo conflitto dalla parte dei civili. Mi interessa mostrare in che modo la guerra irrompe nella vita delle persone e come queste resistono e nobilitano la loro resistenza. È anche un modo per avvertire coloro che ancora non capiscono la pericolosità di questo conflitto, un giorno potrebbero trovarsi nella stessa situazione degli ucraini adesso.

Oggi le guerre, almeno alcune, sono molto mediatizzate o manipolate: circolano tantissime immagini in rete. Eppure è come se questa infinita quantità non permettesse di conoscere davvero ciò che accade. Vedendo «The Invasion» si colgono sentimenti e reazioni che nessuna cronaca o diretta social restituisce.

La prima differenza sta nella qualità di ciò che si fa, chiunque può realizzare delle immagini ma è molto diverso se dietro c’è un operatore con una macchina professionale. Prima di questo però c’è la riflessione su cosa si vuole fare di queste immagini, in che modo saranno composte, cosa vi si cerca dentro. La manipolazione è un rischio presente in ogni immagine, e sin dall’inizio del cinema perché un frammento visivo e un suono possono creare la propria storia al di là di dove una immagine è stata girata: non c’è un contesto. La differenza è ovviamente nel modo di usarle: io cerco di tenere una distanza, osservo e filmo, per me è importante prendere il tempo giusto, non andare veloce ma mostrare ogni situazione, descrivere le persone che ne sono parte, riflettere su come ciò che si vede può essere reso più forte lasciando però una libertà allo spettatore di costruire le sue riflessioni.

Lei lavora spesso con gli archivi. In che modo si confronta con essi? Negli ultimi anni si ha spesso l’impressione che l’archivio è stato banalizzato, che viene usato talvolta quasi come una decorazione o un riempitivo.

È una questione che ancora una volta riguarda il linguaggio del cinema e il modo in cui si utilizza. Per me è cruciale che ogni inquadratura abbia la sua ragione di essere. Costruisco la mia narrazione su una sintassi nella quale ciascun dettaglio ha un significato rispetto al messaggio che voglio trasmettere; è dentro una semantica che deve costruire un senso. Non capisco i registi che usano l’archivio nel modo in cui lei dice, quando accade vuol dire che hanno perduto il senso delle loro immagini.

Nei suoi film la narrazione si pone costantemente su un bordo fra presente e passato.

Dobbiamo dare prima di tutto una definizione del passato: cosa è? Gli eventi accaduti rimangono nel presente e nel futuro, in quella continuità che riassume la parola tedesca Gestalt riferendosi alla continuità. Se fai un film sul passato è dunque anche un film sul presente.

Si aspettava che la guerra fosse così lunga?

Era prevedibile, la Russia lo aveva detto subito che non avrebbe rinunciato ai suoi obiettivi. Ripeto, se l’Ucraina perde, il rischio che si presentino in Europa è concreto. Intanto stanno conquistando l’Africa, ma questa è la sua politica di espansione.