Un uomo con una custodia di sax appesa alla spalla entra solitario in una grande arena all’aperto, il Teatro di Verdura di Palermo. È Joe Lovano, jazzista siculo americano, che nel 2017 Franco Maresco chiama a Palermo per un concerto in onore di John Coltrane nel cinquantenario della morte. Lovano – spiega il regista – è uno dei maggiori tenor-sassofonisti viventi, il musicista più adatto a celebrare uno dei geni musicali del 900 oltre che maggiore innovatore del sassofono jazz negli anni che vanno dal 1958, quando suona nel sestetto di Miles Davis, al 1967 quando incide, pochi mesi prima di morire, Expressions. La cosa interessante è che Lovano, nato nel 1955, non ha mai avuto l’occasione di conoscere Coltrane, né tanto meno di suonarci insieme e la passione incondizionata per la sua musica è un amore a distanza, mediato dagli ascolti discografici e dalle testimonianze altrui.

C’È UN RACCONTO di una mitica jam session del padre, anch’egli musicista, il rapporto professionale con chi, come Elvin Jones, Rashid Ali e Reggie Workman, aveva suonato con Coltrane. E poi l’affetto verso Ravi, il figlio di Coltrane, cui dice «Sei tu che dovresti fare questo concerto». Questa linea sottilmente malinconica, sapientemente incorniciata da ottimi materiali d’archivio ed esibizioni live filmate benissimo, resiste ai gustosi intermezzi comici che il viaggio verso Alcara Li Fusi e Cesarò, i paesi del messinese da dove arrivano i genitori di Lovano, offrono con generosità. L’inserto del telegiornale di una tv locale con uno speaker che, in falsetto, snocciola le notizie essenziali su Lovano funziona allo stesso modo della battuta dell’autista che, alla meraviglia di Lovano che ha riconosciuto un’ambientazione del Padrino, risponde con «La mafia non è più quella di una volta». Coppola, la tv di serie B, il proprio cinema sono tutti elementi di un paesaggio immaginario che Maresco condivide, complice, con i suoi spettatori: io sono ancora qui, e voi? è il messaggio implicito che lancia beffardo.Presentato fuori concorso, è un nuovo atto d’amore del regista per il cinema inteso come spazio in cui reinventandosi ogni volta, restituire le vite delle persone che coinvolge

QUANDO PERÒ, tra un ricevimento di parenti con la lacrima facile e un sindaco paonazzo che gli offre la cittadinanza, Lovano interroga tre giovani musicisti sulle loro passioni musicali, il tono si fa subito serio. «Max Roach mi ha acceso la passione per la batteria» dice uno di loro. E lui, dopo averne rapidamente ascoltato il drumming, ribatte «Devi ascoltare di più Max Roach!». La scelta dei maestri cui ispirarsi, la capacità di ascoltare, la tensione verso la perfezione sono tutte espressioni di una pulsione necessaria anche se destinata a restare inappagata, articolazioni di quel vuoto originario su cui Maresco costruisce il personaggio di Lovano e che, però, con gesto artistico inusitato riesce trionfalmente a colmare. Lovano Supreme è il mezzo con cui Lovano si congiunge a Coltrane, suonando con lui in una sequenza di esemplare discrezione, colmando un vuoto e dando vita a un’esperienza vibrante, spirituale quanto concreta. Maresco chiede al cinema di non limitarsi a riprodurre, di andare fuori di sé e di trasformarsi in un atto di vita delle persone che coinvolge. «Mi piacerebbe dare alla gente qualcosa di simile alla felicità» diceva Coltrane. Maresco condivide l’intenzione e si produce in un gesto filmico straordinario, un atto d’amore profondo che testimonia la vitalità di un autore capace di rilanciare continuamente il proprio progetto in sfide ardite quanto necessarie. Un grande film.