Cultura

Louise Glück, interprete di una metafisica dell’ordinario

Louise Glück, interprete di una metafisica dell’ordinarioLouise Glück, dalla performance «Origins», 16 marzo 1978

Addii Nobel per la letteratura 2020, la poeta statunitense è morta a 80 anni nella sua casa in Massachusetts

Pubblicato 12 mesi faEdizione del 15 ottobre 2023

La notizia della scomparsa della poeta statunitense Louise Glück, premio Nobel per la Letteratura nel 2020, è arrivata nel tardo pomeriggio di un inizio d’autunno, mentre stavano cambiando i colori dello spettacolare paesaggio del New England dove ha sempre vissuto e dove si è spenta all’età di ottant’anni. In Massachussetts, le colline sono «ocra e fuoco» e perfino «i campi brillano», ha scritto nei versi di «Ottobre», che aprono uno dei suoi libri più apprezzati, Averno. Chi parla qui è Persefone, che alla fine dell’estate si appresta a rientrare nel gelo dell’Ade; il sole ancora caldo è come un «balsamo dopo che le foglie sono ingiallite».

NATA A NEW YORK nel 1943 da una famiglia di origine ebraica, venne indirizzata alla scrittura dal padre, immigrato dall’Ungheria, «un uomo d’affari e un sognatore». Louise passò l’infanzia e l’adolescenza a Long Island in un ambiente in cui, come lei stessa racconta nella nota biografica rilasciata in occasione del Nobel, la sensazione che «l’arte fosse una nobile vocazione» era davvero molto forte. Avviata fin da piccola alla lettura dei classici inglesi, alla musica e alla danza, iniziò a scrivere versi alla scuola superiore e compose il suo primo libro, Firstborn (1968), a diciotto anni. Ma si ammalò di anoressia e fu costretta ad abbandonare temporaneamente gli studi e a entrare in analisi, un percorso durato sette anni che, come scrisse, cambiò radicalmente la sua vita, abbattendo i muri sempre più stretti all’interno dei quali si era rinchiusa.

Erede della più pura tradizione lirica statunitense e maestra nel trasformare la quotidianità personale e l’aneddotico in metafisiche meditazioni, Gluck ha cercato di raccontarci in versi brevi e in una lingua ellittica, leggera, vicina al parlato, disadorna e risuonante a un tempo, cosa sia un sé diviso dal corpo, l’enigma dell’ego, l’inconscio che riaffiora come un estraneo.

IN UNO DEI SUOI più bei libri, Iris selvatico del 1992 (tradotto, come tutta la sua opera, da Massimo Bacigalupo, che la ricorda in questa pagina) in veste di giardiniera stabilisce un particolare rapporto con le piante, trasformando il luogo in cui crescono in un mondo che accoglie le sue conversazioni sulla fugacità dell’esistenza: ne parla con i fiori e con un Dio creatore di specie imperfette, tormentate dal male di vivere e dall’aspirazione all’eternità. «Gli esseri umani lasciano/segni di sentimenti/dovunque, fiori/sparsi sul sentiero terroso» – dice il biancospino; mentre, alla fine dell’estate e del libro, i gigli raccontano il terrore della morte e la gioia di avere vissuto. La voce di Louise tiene unite le loro parole, ne commenta il senso, in un giardino divenuto specchio della nostra breve vita.

Il recupero di miti e figure classiche è stato fin dal secondo libro, The House of Marshland (1975), il suo modo di innestare in trame collaudate temi del tutto personali. In Medowlands (1996) la rottura del matrimonio è riflessa nel mito di Ulisse e Penelope. In Vita Nova (1999) le conseguenze di un amore finito evocano Didone e Enea, Orfeo e Euridice e Pia de’ Tolomei oltre ad affrontare il tema dantesco di un amore perduto e la sua metamorfosi in poesia. In Ararat nel 1990 le sue meditazioni partono dalla morte del padre; in The Seven Ages del 2001 quella sua affascinante ossessione per il commento ai fatti della vita copre un arco temporale che va da un immaginario stato pre-natale a un altrettanto ipotetico tempo oltre l’esistenza terrena. Protagonista, un Io che si ostina a tentare il bilancio delle varie fasi della vita.

GLI STESSI TEMI tornano anche nei libri più recenti, da A Village Life (2009) dall’andamento narrativo con versi lunghi, sperimentali, a Notte fedele e virtuosa (2014) in cui rimugina sull’ultima fase della vita, recuperando i sogni dell’infanzia.
Premio Pulitzer nel 1993, Glück è stata per oltre quarant’anni ai vertici della poesia contemporanea americana con le sue dodici raccolte poetiche e i volumi di saggi. Il suo editore, Jonathan Galassi, grande italianista e romanziere egli stesso, così la ricordava, ieri: «la poesia di Louise Glück dà voce con scetticismo al nostro irrinunciabile bisogno di conoscenza e di rapporti umani in un mondo spesso inaffidabile».

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