Poeta sibillina? colloquiale? laconica? tagliente? Louise Glück, la statunitense premiata col Nobel nel 2020, è questo e altro, come sanno i lettori italiani delle cinque sue raccolte edite sin qui: L’iris selvatico, Averno, Ararat, Notte fedele e virtuosa, Ricette per l’inverno dal collettivo (tutte oggi da il Saggiatore). Sulla sua rilevanza eccezionale non ci sono dubbi, e martedì 29 novembre alle ore 16 Louise Glück riceverà il Premio LericiPea «alla Carriera», che prima di lei è andato agli anglofoni Ferlinghetti (USA), Heaney (Irlanda) e Carol Ann Duffy (GB). Glück vive fra Cambridge nel Massachusetts e una casa isolata nel Vermont, e appare di rado in pubblico. Come a Stoccolma, la premiazione del LericiPea sarà virtuale. Potrà essere seguita in diretta sulla pagina del Premio LericiPea Golfo dei Poeti. Sarà interessante vedere come la premiata accetterà questo suo primo importante ancorché simbolico riconoscimento italiano.

In Averno, volume cruciale del 2006, che prende il titolo dal laghetto fatale presso Napoli, una voce narrante dice «Delle ragazze mi chiedono / se sarebbero sicure nei pressi di Averno – / hanno freddo, vogliono andare a sud per un po’. / E una dice, come scherzando, ma non troppo a sud – // Io dico, al sicuro come da qualsiasi parte, / il che le rende felici. / Intendo dire che niente è sicuro…». Che freddura! Queste ragazze americane hanno fatto una scelta ben diversa dalle solite Cinque Terre. Per Louise Glück tutto è problematico. Ma la scrittura è cristallina, tanto da mettere in difficoltà i traduttori. Le parole sono di solito poche e semplici e si stagliano sulla pagina in tutta la loro nudità. Facile stonare.

Del resto nei suoi libri dall’ingannevole chiarezza Louise Glück ingaggia una corsa a nascondino con chi legge. Per esempio, l’io narrante è spesso ben diverso dall’autrice. In inglese è addirittura quasi facile nasconderne il genere, in italiano meno. In «Averno», la poesia eponima che ho appena citato, non è affatto chiaro se a parlare sia un uomo o una donna. Di sicuro non è Louise Glück, visto che all’inizio la voce parla dei suoi figli (lei ne ha uno solo), convinti che ormai sia senile, che vogliono che metta a posto i suoi affari, «temono che il fisco / si mangerà tutto».

Molto terra terra, per un libro come Averno al cui centro c’è addirittura la vicenda di Persefone e sua madre. Il rapimento, lo stupro, il rito di passaggio da ragazza a donna, moglie. E poi vita e morte. «C’era una guerra tra il bene e il male. / Decidemmo di chiamare il corpo bene. // Ciò fece della morte il male» («Lago vulcanico»). Occorre invece rappacificarsi con la Morte. Come fa Persefone col suo rapitore-marito, Ade. Il dio dell’oltretomba.

A Louise Glück non difetta il coraggio. Lavora su questi grandi temi con mano sicura, passando dal metafisico al quotidiano. Le sue raccolte sono in realtà delle lunghe sequenze da leggere come un unico racconto a voci intrecciate. O alternate. Spiazzano, e si lasciano interrogare più volte. Hanno tutte il sigillo dell’eccellenza, la sicurezza di una parola definitiva, smagliante, diretta. Certo, qualche chiave di lettura può aiutare, ma in fondo i lettori devono saper lavorare per conto proprio davanti a queste invenzioni poetiche così autorevoli e dirette, che cercano un rapporto a uno a uno con chi legge.

Ararat è la più antica delle raccolte edite in Italia. È infatti del 1990, opera di una quasi cinquantenne. Che disse che qui assolutamente non c’era poesia. Ararat è anche il nome del cimitero ebraico di Long Island dove è sepolto il padre di Louise Glück. La sua morte è l’argomento di questo poema famigliare, guardata con distacco qua e là ironico, nel destino delle sopravvissute, soprattutto la vedova (alle esequie esse «hanno paura di piangere / qualche volta di non piangere»). Louise Glück trova i suoi grandi temi nelle immediate vicinanze, tale è la sua capacità di cogliere e vedere dietro ai gesti convenzionali… la vita e la morte. A chi la potrebbe accusare di intimismo risponde nella prima poesia, intitolata addirittura «Parodos»: «Ero nata con una vocazione: / testimoniare / i grandi misteri». La quarantenne di Long Island diventa la Sibilla. Noi decifriamo con stupore e piacere le sue sentenze. L’umorismo ebraico, la lucidità terribile, non mancano. Nemmeno la dolcezza. Si guarda il mondo. «La morte non potrà ferirmi / più di quanto tu mi abbia ferito, / amata mia via» («Ottobre», in Averno).

Poesia spoglia, tutta basata sulla scansione di parole isolate, che solo nelle ultime raccolte danno luogo a versi lunghi. Non ci sono rime. Solo parallelismi, stacchi: «death cannot harm me / more than you have harmed me, / my beloved life». Anche per chi da noi sa poco inglese, le edizioni italiane con testo a fronte offrono un testo pressoché trasparente, da assaporare. Cosa potrebbe essere più semplice di questa frase che conclude «Ottobre»?
Averno uscì nel 2006, è la raccolta dei sessant’anni, ma «Ottobre» era apparsa prima, con una allusione molto indiretta nel titolo a un particolare settembre: 11/9. E la voce singola si fa corale: «Estate dopo che l’estate è finita, / balsamo dopo la violenza…». («Summer after summer has ended, / balm after violence».) È l’estate di San Martino, l’Indian Summer del Vermont. Proprio nel 2003 la riservata Louise Glück divenne Poeta laureato degli Stati Uniti.

Dopo la poesia famigliare di grado zero di Ararat, Louise Glück stupì tutti compreso sé stessa con L’iris selvatico (1992). Qui l’argomento è ancora più prossimo, il giardino del Vermont. Ma a parlare sono stranamente i fiori stessi che raccontano agli umani (la coltivatrice e il marito) le loro esperienze di nascita e breve fioritura. La metafora è antichissima. Ma le voci del mondo chiamano in causa tempo, esperienza, stagioni. E non manca al solito l’ironia (anche sullo stesso rischioso scrivere di fiori). E poi c’è addirittura Dio. Infatti alle voci dei fiori si alternano quelle degli umani che si rivolgono al loro Giardiniere, e quella di quest’ultimo, che guarda alle sue creature come un esperimento quasi sempre fallito. L’uomo patetico: «Ma sappiate che / mi aspettavo di più da due creature / che ho dotato di cervello…».

L’iris selvatico ottenne il Premio Pulitzer. Seguirono tre raccolte negli anni novanta, e poi nel nuovo secolo le opere della tarda maturità: «Le canzoni sono cambiate, ma certo sono ancora piuttosto belle. / Sono concentrate in uno spazio minore, lo spazio della mente» («Ottobre»). Per i settant’anni esce Notte fedele e virtuosa (in Italia nel 2021), un magnifico tour de force che nel titolo allude alla saga della Tavola rotonda.

Infatti nella poesia eponima il narratore, un pittore, ricorda che quando era bambino il fratello maggiore leggeva un libro che chiamava «virtuous and faithful night». Ma chi legge comprende che il fratellino capisce «night» (notte) per «knight», cavaliere. Nasce così un accostamento inaspettato e suggestivo, e la notte ritornerà spesso nella autobiografia del pittore. Tutte cose che chi legge deve scoprire. Perché questa voce maschile appare solo nella quarta lunga poesia. Ecco il gioco a nascondino, e le voci che si alternano. Qui Louise Glück vuole affrontare modalità narrative. Leggeva i romanzi bellissimi di Iris Murdoch, dice. Perché non provare a scrivere un suo romanzo poetico anch’esso ambientato in Inghilterra?

Del resto l’infanzia rimane sempre al centro, che si tratti del narratore o di Louise Glück e sua sorella. Infatti la storia notevole del pittore e della sua creatività (altro tema ricorrente) si alterna a sequenze del romanzo famigliare della poeta. Che formano una elegia per la madre, morta in età avanzata: «Mamma è morta ieri sera, / mamma che non muore mai. // L’inverno era nell’aria». Così succedono le cose. Parlare della morte dei propri cari è arduo. C’è paura di piangere, e di non piangere. Louise Glück canta, disegna un momento, ritrova un libro – Morte a Venezia – con un segno della lettrice scomparsa accanto all’ultimo richiamo di Tadzu («Un giardino d’estate»). Una terza voce di Notte fedele e virtuosa sono brevi poesie in prosa di sapore surreale e kafkiano, e proprio su una di esse questo libro di meraviglie si chiude.

Fu l’ultimo prima del Nobel. A cui è seguito il più esile Ricette per l’inverno dal collettivo (2022). Cioè ricette per l’ultima fase della vita, uscite alla soglia degli ottant’anni. Il collettivo saranno le tante voci che compongono i nostri racconti, e anche in questo ultimo libro le poesie personali si alternano a parabole allegoriche, «La negazione della morte», «Una storia non finita», lunghe poesie dove personaggi dialogano in scene che hanno molto del sogno. La poesia diviene racconto, la modalità che Louise Glück ama esplorare. Ma nelle poesie personali si riaffaccia la morte famigliare, e chi legge scopre che il tema è la morte recente di una sorella: «I bellissimi giorni dorati quando tu saresti morta fra poco, / ma potevi ancora iniziare discorsi casuali con sconosciuti…». Molto determinato, molto toccante nella sua laconicità. La prima bellissima lirica si chiama «Poesia»; l’ultima, decantata al massimo, «Canto». Il canto ultimo. Louise Glück è una poeta insuperata nella capacità di raccontare le intermittenze profonde dell’esistenza nella contemporaneità e sempre.