Le politiche migratorie dell’Unione Europea sono sempre più ossessivamente concentrate sulla riduzione del diritto di asilo e sul contrasto alla mobilità delle persone potenziali richiedenti protezione internazionale. Fra le molteplici ragioni che il libro Chiusi dentro. I campi di confinamento nell’Europa del XXI secolo (pp. 310, euro 18, edito da Altreconomia e curato dalla rete RiVolti ai Balcani) ricostruisce, una risulta fondamentale: le persone che richiedono asilo agiscono al di fuori delle programmazioni degli stati (basate sul sistema delle quote di accesso) e delle loro procedure ritenute ordinarie (concessione dei visti) per esercitare il diritto alla mobilità, dunque l’autonomia delle migrazioni.

Sul piano dell’analisi sociale e politica è questo il campo della lotta in corso, definito dal contrasto tra l’interesse degli stati a usare le migrazioni in modo utilitaristico (come manodopera possibilmente a basso costo o come oggetto-nemico per costruire consenso sulla base della paura e/o del razzismo) e l’interesse dei potenziali richiedenti asilo a cercare luoghi più sicuri, lontani da guerre, minacce e lutti, anche a rischio della vita e, a volte, di quella degli stessi affetti più cari.

QUESTO TERRENO DI SCONTRO – che le persone in cerca di protezione ovviamente eviterebbero, in presenza di reali alternative per la loro mobilità – è alimentato dalle politiche dell’Unione Europea e dei suoi stati membri in modo da erodere diritto e diritti, agendo con dichiarazioni, memorandum, accordi bilaterali, condotte di polizia in deroga ai trattati della stessa Unione.

È proprio il tema dell’attacco al diritto e ai diritti il filo conduttore del libro, che mette insieme 17 testi – la prefazione su «l’eclissi del diritto», 12 capitoli e 4 schede di approfondimento – scritti da persone impegnate come giuriste, avvocati, attivisti, ricercatori, giornalisti e operatori legali.

IL VOLUME MOSTRA come, lungo l’intera area orientale del continente europeo, dai paesi dell’ex Jugoslavia alla Turchia, si dispieghi un sistema di «violenza strutturale» contro le persone richiedenti asilo o potenziali tali, attraverso una molteplicità di pratiche basate sul sopruso agite dagli stati. In queste pratiche si incontrano i reali protagonisti delle migrazioni, governati come minacce da tenere lontane o abbandonare.

Su di loro si è sviluppato un intero vocabolario della repressione – fatto di parole quali respingimenti, rimpatri, riammissioni, espulsioni, esternalizzazioni, controllo delle frontiere esterne, illegalità/irregolarità, interdizione dei movimenti secondari, centri hotspot – utile per costruire un’ideologia a sostegno della legittimazione della violenza contro le persone indesiderate perché non utili al momento e non coerenti con l’utilitarismo degli stati e delle loro economie nazionali e regionali.

Il testo è una miniera di documentazione. Scende nel dettaglio dei casi nazionali studiati (Turchia, Grecia, Macedonia del Nord, Serbia, Bosnia, Polonia, Bielorussia, Lituania, Lettonia, Italia) e delle iniziative istituzionali, comprese quelle agite da Frontex, l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera. Quello che emerge è la centralità delle pratiche di confinamento, l’altra faccia della violenza strutturale delle politiche migratorie, che determinano «un distinguo tra chi può passare da un territorio a un altro senza percepire l’esistenza di un confine e chi, invece, è costretto a una vita nella frontiera». È questa separazione tra esseri umani legittimi e esseri umani indesiderati che va messa radicalmente in discussione.

È IL RAZZISMO COSTITUTIVO delle politiche della mobilità dell’Unione Europea che deve essere sconfitto se si vogliono superare le condizioni socio-istituzionali che sostengono le violenze contro le persone richiedenti asilo e potenziali tali. Il problema non è, dunque, quello di approntare piccole riforme all’esistente, ma è quello di mettere in discussione la logica e la finalità fondante di tali politiche, orientata a selezionare le popolazioni con la violenza, con l’obiettivo – come scrive l’ex magistrato Livio Pepino nella Prefazione – «di garantire la sopravvivenza di questo sistema».