Chi l’avrebbe mai detto, in quegli anni «antichi» che, con la nascita dei computer, l’arte avrebbe cominciato a prestare sempre più attenzione e interesse a quel mondo fatto di bytes, senza apparente identità?

Se inizialmente l’obiettivo dei computer poteva essere stato quello di studiare e calcolare la traiettoria di un missile o decifrare codici estremamente complicati e sicuri (e quindi anche pericolosi), dall’inizio degli anni 50 – a danni e orrori già compiuti, e a solo sette anni dalla bomba atomica (sette!) – ci si cominciava a orientare verso fini artistici.

Proprio nel 1952 era stata creata la prima immagine esteticamente valida grazie all’opera di un marchingegno molto complicato, ma anche estremamente semplice, chiamato computer analogico. (Per molti in realtà quasi impossibile da usare, basti dire che qui si parla la lingua dei logaritmi).

Questo momento (anche artistico) si concluderà nel 1982, quando il personal computer conquisterà il palcoscenico come «la macchina del futuro». Ed eccoci qui allora, a cercare di capire meglio un passato tanto vicino ma per molti quasi un incubo incomprensibile. Del resto, non tutti hanno scelto di seguire il percorso di qualcuno «matematicamente» dotato che ha frequentato, dopo la maturità, la facoltà di informatica.

La mostra Coded: Art enters the Computer Age, 1952-1982, al Lacma di Los Angeles (fino al 2 luglio) racconta il mondo di un’arte (al tempo) totalmente nuova, dove il segreto e il «talento» non stava più nella differenza tra colori acrilici o a olio, o su quale giallo è meglio usare per un campo di grano. Stava invece in quello che noi oggi chiamiamo Arte digitale, creata da artisti, scrittori, musicisti, grafici, che lavoravano su computer, con quei (misteriosi) algoritmi e sistemi che permettevano di dare vita a un nuovo mondo.

Molti artisti associati, con movimenti di arte tradizionale come quella Concettuale e Op, avevano offerto un nuovo contesto per riconsiderare lavori di tanti non ancora riconosciuti, ma che ora erano finalmente visti sotto una nuova luce.

I moltissimi pezzi presi in considerazione nella mostra, riflettono sulle caratteristiche proprie degli anni ’60 e ’70. Lo studio attento della mostra, porta così alla conoscenza degli anni che hanno condotto all’avvento del personal computer, oggi diventato sempre più un imperativo e una necessità quotidiana, per capire davvero l’arte e la cultura digitale di ieri, e quindi anche di oggi.

Incontriamo nelle sale del museo più di cento oggetti creati da settantacinque artisti diversi, molti dei quali sono riusciti ad essere esposti qui, per la prima volta (alcuni con i tanti disegni già presenti nella collezione permanente del museo). Come racconta la curatrice del settore Disegni e stampe, Leslie Jones, «Coded porta alla luce la prima arte digitale, l’arte dei computer che è stata trascurata per molto tempo, ma che oggi incoraggia un nuovo modo di guardare all’arte (…) di quel periodo».

Del resto ci sono paralleli interessanti tra l’arte creata dal computer e i movimenti tradizionali e contemporanei, come l’Arte minimale e quella Concettuale, nel loro mutuo incontro con l’algoritmo, per una nuova riflessione e produzione d’arte.

Il museo, visto il suo costante impegno nell’esplorare l’incontro tra arte e tecnologia, aveva, già dal 1967, creato un programma Art and Technology che, proprio con questa nuova mostra, propone una tra le prime ricerche artistiche del mondo digitale.

Così è stata presentata la sezione Art and Technology Lab, che espone anche il lavoro digitale progettato da Victor Vasarely, proposto già al museo per quel programma del 1967-71. Casey Reas propone invece Metavasarely, un lavoro interattivo raccontato virtualmente su lacma.org, e proprio durante l’esposizione divisa in 6 sezioni – sia tematiche che cronologiche – dell’intera storia del computer.

(Le 6 sezioni: The Computer and Popular Consciousness; Mathematic and the Beginning of Computentional Aesthrtics; Algorithms and Generative Text; Encoding Art; Information as Art/Art as Information; The Computer and Politics/Open Scores).

Nel 1968, il pittore astratto Hammersley, arrivato a un punto di impasse, e trasferendosi da Los Angeles a Albuquerque per insegnare all’Università del New Mexico, incontrerà qui colleghi coinvolti in un programma di software che lo aveva poi reso in grado di creare nuove immagini utilizzando computer Ibm. Nel giro di pochi mesi era stato così in grado di produrre centinaia di disegni a computer (astratti, geometrici, simbolici, alfanumerici), una serie di studi e lavori conclusa un anno dopo.

La caratteristica di quel momento era stata quella di indagare, scoprire e trovare, attraverso un linguaggio fino ad allora quasi inesplorato e dove, l’ipotetico pennello, veniva sostituito da una tastiera di computer e anche la tela da uno schermo. Era semplicemente trovare un nuovo e sconosciuto alfabeto che nessuno, mai, aveva ipotizzato di poter utilizzare per creare arte.

The friendly Gray ComputerStar Gauge Model #54 (1965) di Edward Kienholz, anticipava la nuova era del computer, umanizzando l’opera aggiungendo elementi che si richiamassero al concetto di umano, come anche gambe di bambole perché, come avvisa il creatore dell’opera, «I computer a volte si stancano e hanno dei crolli nervosi… Ricorda che se tratti bene il tuo computer, anche lui lo farà».

Nell’aprile del 2022, Sotheby’s aveva presentato quello che era stata chiamata Native Digital 1.3 e, già pochi mesi dopo, era stata creata anche un’asta online – intitolata Ex-Machina: A History of Generative Art – con una mostra informativa che ha viaggiato da Parigi a Londra.

Nell’asta c’era un’opera del 1974 dell’artista di origini ungheresi Vera Molnár, che consisteva in nove disegni su una striscia di carta per plotter lunga cinque metri. Nel periodo in cui Hammersley lavorava con il computer della sua università, Molnár, tramite l’accesso a un Ibm della Sorbona, aveva tentato di «sistematizzare» (lo farà per anni), i suoi metodi creativi, sognando di poter avere una macchina in grado di generare disegni secondo istruzioni predeterminate.

Nell’ultima mostra, organizzata per il 2023, è stata classificata con un perentorio «Must see», e il Lacma si è semplicemente guardato alle spalle per «intercettare» e capire quel momento di grande entusiasmo nell’epoca degli inizi del computer.

La tecnologia era stata infine riconosciuta come un mezzo importante, se non fondamentale, per capire le ambizioni dell’arte dalla seconda metà del ventesimo secolo. I tanti artisti presenti in questa mostra californiana, esplorano, ognuno secondo linee programmatiche sempre inedite, il mondo artistico digitale.

L’artista Vera Molnár per esempio, con la sua Á la recherche de Paul Klee (1970), disegno a plotter spirato da un dipinto del 1927 dell’artista svizzero-tedesco, programma un metodo a computer per inserire linee parallele in una griglia quadrata con diversi orientamenti e spessori (orizzontale, verticale, diagonale), che le permettono di portare così alla luce e realizzare immagini digitali. Le molte creazioni sono raccontate in un catalogo di DelMonaco Books/Lacma.