L’oro illegale dell’Amazzonia brilla tra le colline di Arezzo
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L’oro illegale dell’Amazzonia brilla tra le colline di Arezzo

Al lavoro in una miniera d’oro illegale nella regione amazzonica di Itaituba, stato del Pará, in Brasile – Ap

Brasile Dopo l’operazione di polizia «Terra Desolata», scattata lo scorso ottobre con grande clamore e con un nome non a caso italiano, arriva l’inchiesta di «Reporter Brasil» sulle attività minerarie abusive nei territori riservati agli indigeni kayapó messe sotto accusa nello stato del Pará. Da Badia al Pino l'azienda Chimet smentisce acquisti non certificati.  Esposto di Bonelli (Europa Verde): «L'esportazione avviene con voli privati all'insaputa delle autorità senza passare per Siscomex, il sistema integrato del commercio estero»

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 12 febbraio 2022

Sono ancora aperte, le vene dell’America Latina – se mai si erano chiuse. E questa volta sono vene d’oro, che scorrono nel letto dei fiumi e nelle terre dell’Amazzonia indigena. Vene dragate e scavate, private dell’oro e riempite di mercurio e acido cianidrico, i reagenti che separano il metallo dalla terra resa inutile.

I veleni restano in Brasile e intossicano a morte uomini, animali e piante. L’oro arriva in Europa. Anche in Italia, sulle colline di Arezzo.

È IL 27 OTTOBRE DEL 2021 quando la polizia federale dello stato brasiliano del Pará lancia la Operação Terra Desolata, e il nome italiano non è scelto a caso. In una retata duecento agenti arrestano 12 persone, notificano mandati a altre 62, sequestrano conti correnti per mezzo miliardo di reais (circa 90 milioni di euro), sequestrano cinque aerei Cessna e un elicottero oltre ad automobili ed escavatori, bloccano una decina di imprese.

Il reato è il garimpo ilegal, l’attività mineraria abusiva, esercitata – è un’aggravante – nei territori dell’Amazzonia riservati agli indigeni.

Le terre sono quelle dei Kayapó, meno di novemila persone che si definiscono «il popolo dell’acqua» e vivono tra gli affluenti del fiume Xingo prima che si getti nel Rio delle Amazzoni.

Come in tutta l’Amazzonia brasiliana, peruviana e colombiana, il covid ha devastato economie già fragilissime e alcuni cacicchi kayapó hanno cominciato ad accettare il denaro che i bianchi offrono per trivellare.

MA I BIANCHI OFFRONO anche piombo. L’inchiesta nasce infatti in un momento del 2020 in cui una famiglia di agricoltori si vide offrire soldi in cambio di accesso alle proprie terre. Rifiutarono, e apparvero i pistoleri. Col risultato che i fratelli Arlan e Hailton Monteiro De Almeida cominciano a scavare, estrarre, vendere.

Fu l’inizio di un caleidoscopio di laranjas (le arance sono i prestanome nel gergo criminale brasiliano) costruito su tre livelli. I garimpeiros che scavano, come quelli immortalati da Salgado nella devastante febbre dell’oro che negli anni ’60 creò la città di Ourolândia (appunto) e morti a migliaia. Poi gli intermediari come la cooperativa Cooperouri, che ritirano l’oro e lo dotano dei documenti necessari mentre disperdono il denaro in rivoli inestricabili. Infine le grandi imprese che lo comprano con le formalità di legge, lo raffinano e lo commercializzano.

Tra gli intermediari ci sono due italiani, Giacomo Dogi e suo padre Mauro, titolari dell’impresa Chm Do Brasil. Sono già noti alla polizia. Maneggiano miliardi di reais.

E il loro principale cliente è un’azienda italiana, la Chimet di Arezzo. Un gigante poco conosciuto. Con i suoi stabilimenti a Badia al Pino, Chimet è la più grande azienda toscana per fatturato (circa 3,5 miliardi di euro) e la 44esima in Italia – dove le prime tre sono Eni, Enel e Fiat.

Raffina e recupera metalli, vanta certificazioni europee, lavora con il regolatissimo London Bullion Market, i grossisti mondiali dell’oro. Ed è un capolavoro di capitalismo familiare: il fondatore Sergio Squarcialupi e la sua famiglia non ne hanno mai abbandonato la guida fin dalla fondazione nel 1976.

L’ITALIANO “DO BRASIL” Mauro Dogi è un ex dipendente Chimet. E la polizia brasiliana che gli ha fatto i conti in tasca sostiene che i Dogi abbiano comprato almeno una tonnellata di «oro di sangue» amazzonico, in buona parte spedita ad Arezzo.

L’operazione sarebbe passata sotto silenzio se non fosse stato per una piccola, eccellente agenzia di giornalisti investigativi di San Paolo, Reporter Brasil, che si è messa al lavoro e l’altro giorno ha pubblicato una dettagliata inchiesta che parte dalle devastazioni amazzoniche e arriva a Badia al Pino.

Obbligando l’italiana Chimet – che anni fa chiuse per prescrizione un processo per inquinamento – a mettere in campo il suo avvocato Roberto Alboni, che nega ogni addebito, assicura che l’azienda non compra oro senza documenti e riduce la portata del fatto (una tonnellata? Ne lavoriamo 70 l’anno…).

E se non fosse per il portavoce di Europa Verde, l’ex deputato Angelo Bonelli, che ha vissuto per oltre un anno in Amazzonia tra i vicini dei Kayapò, i Mundurunku.

IERI BONELLI HA PRESENTATO un esposto alla procura di Arezzo che getta dubbi sulla bontà dei documenti che accompagnano l’oro amazzonico: «L’esportazione avviene con voli privati all’insaputa delle autorità senza passare per Siscomex, il sistema integrato del commercio estero. Questa vicenda va chiarita, difendere le terre indigene da chi le distrugge in nome dell’oro deve essere una priorità».

Errata Corrige

Dopo l’operazione di polizia «Terra Desolata», scattata lo scorso ottobre con grande clamore e con un nome non a caso italiano, arriva l’inchiesta di «Reporter Brasil» sulle attività minerarie abusive nei territori riservati agli indigeni kayapó messe sotto accusa nello stato del Pará. Da Badia al Pino l’azienda Chimet smentisce acquisti non certificati.  Esposto di Bonelli (Europa Verde): «L’esportazione avviene con voli privati all’insaputa delle autorità senza passare per Siscomex, il sistema integrato del commercio estero»

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