«Tutti quanti noi non andiamo fino al limite di noi stessi, o perché abbiamo paura di finire in prigione, o perché temiamo di urtare i nostri simili, o per ipersensibilità, o per buona educazione, come si dice… Insomma, per un mucchio di ragioni, ci sono poche persone che arrivano fino al limite di se stesse». Malgrado sia stato spesso descritto come un cantore della piccola borghesia e delle sue contraddizioni, è noto come Georges Simenon sia sempre stato mosso da un sentimento ambivalente, un disprezzo misto ad un’incerta proiezione di sé e dei suoi personaggi, a cominciare dal commissario Maigret, all’interno di tale ceto e «spazio di senso».
Non a caso, proprio nel sottolineare quella remora dei più a spingersi «fino al limite», consegnata al giornalista e sceneggiatore Francis Lacassin in una serie di lunghe interviste – raccolte in Conversazioni con Simenon (Lindau, 2017) -, lo scrittore belga indicava altresì tutto il proprio interesse nel cogliere attraverso le proprie opere «il passaggio della linea», quel momento che segna una rottura, una crisi, una svolta che appare inaspettata persino a quanti ne sono in prima persona protagonisti. Uno squarcio di luce emerge dai contorni spesso sordidi di un contesto che cerca di affogare nell’ombra e nell’indefinitezza vite, sentimenti e personalità, celando violenza e sopraffazione, umiliazioni e abusi talvolta perpetrati nel segno del potere.
La voce narrante è quella di Laura, appena vent’anni, che denuncia il modo in cui è stata plagiata dal sindaco, nel frattempo divenuto ministro, di una piccola città dell’Ovest francese. A presentarla all’uomo è stato il padre della ragazza, un ex pugile sul punto di risalire sul ring per l’incontro della vita, che del potente primo cittadino è l’autista. Una semplice richiesta di lavoro, e di un alloggio per la giovane appena rientrata da Rennes, che si trasformerà in un incubo, in uno stato di costrizione, con Laura soggetta alle voglie, anche sessuali, del «signor sindaco». Sarà lei stessa a raccontare ai poliziotti quanto le è accaduto quando troverà la forza di denunciare l’uomo, incurante del peso e del ruolo che esercita sia localmente che a Parigi.
Sarà spiegando cosa le è accaduto, attraverso tappe che equivalgono ad altrettanti capitoli del romanzo, che si renderà conto di come «la trappola» fosse scattata fin dal primo momento, quando, incontrando il sindaco nella stanza che le è stata concessa al piano di sopra del casinò dove lavora, anche in questo caso grazie all’uomo, si era sentita «come se stesse per apporre una firma in calce a un contratto che sarebbe stato difficile rompere e di cui avrebbe accettato in anticipo tutte le clausole, sottoscritto tutte le addizionali che non erano ancora state indicate, sentendo che ogni singola mossa avrebbe rappresentato intere pagine di quel contratto fitte di obblighi». Laura è una bella ragazza, abituata fin da adolescente agli sguardi insistenti dei maschi, quando ancora frequentava la scuola ha posato per qualche rivista per adulti indossando biancheria intima di marca, ha provato anche a fare la modella di lingerie ma senza troppo successo. Quando la sua denuncia arriva in tribunale scoprirà che quel passato le viene fatto pesare come una colpa, come qualcosa di cui provare vergogna e percepirà una volta di più che lei, «la figlia dell’autista del sindaco» non sembra nemmeno poter immaginare di ribellarsi alla propria sorte.
Ma non è tutto, dopo quella tragica notte, svegliandosi ogni mattina, la donna capisce di por ancora evitare la tragedia: giorno dopo giorno sta infatti compiendo una sorta di viaggio a ritroso nel tempo che se le potrà consentire di impedire l’omicidio non la metterà al riparo dallo scoprire ogni sorta di mistero legato alla vita serena e in apparenza felice che ha condotto fino a quel momento. Malgrado le apparenze, in Posto sbagliato, momento sbagliato (traduzione di Enrica Budetta, Fazi, Darkside, pp. 380, euro 18), l’autrice britannica Gillian McAllister non mette tanto l’accento sulla possibilità di modificare il nostro destino, quanto piuttosto su ciò che potrebbe rivelarci di noi stessi e di quanti ci circondano, compresi i nostri affetti più intimi, tale possibilità. La casa di cui Jen è così orgogliosa rischia di «farla prigioniera», insieme ai segreti che, ha capito, custodisce da sempre. «Sta per succedere qualcosa. Jen ne è sicura, pur senza essere in grado di dire cosa; una specie di sesto senso che si attiva quando c’è un pericolo, quello che prova in prossimità dei fuochi d’artificio, i passaggi a livello e l’orlo dei precipizi. I pensieri le si rincorrono nella testa come i clic di una macchina fotografica, uno dopo l’altro, dopo l’altro ancora».
È durante i lavori di ristrutturazione dell’edificio che nei sotterranei viene rinvenuto il cadavere murato di un bambino. Sarà solo la prima di una serie di macabre scoperte che obbligheranno la detective Redondo a scavare in profondità nella storia del luogo e della famiglia che lo ha abitato. In questo caso il rimosso non si rivelerà solo biografico e personale, ma finirà per interrogare le vicende della Guerra civile, il modo in cui in tanti continuarono a battersi contro Franco anche dopo la sconfitta della Repubblica, ma anche un passato di violenza che qui come in altre parti della Spagna si è voluto occultare a lungo. Del resto, ammetterà uno dei protagonisti del romanzo, «nulla, o almeno poche cose, sono come appaiono realmente. Anch’io posso cadere nell’inganno delle apparenze».
Berthe Gavignol, cinque volte vedova, e ancora dotata di una buona mira, tratteggia all’ispettore André Ventura i contorni di una vita non solo avventurosa, ma probabilmente segnata da una lunga serie di crimini. Si potrebbe pensare che Berthe racconti l’autobiografia di una serial killer o che, certo ricorrendo alle spicce, abbia passato la vita a difendersi da uomini violenti e che le volevano imporre ogni sorta di regola: uomini che lei non ha esitato un solo momento a far fuori. Ha attraversato l’intero 900, la guerra, la povertà, lo sfruttamento, ma «Berthe non è mai stata un tipo che si fa piegare», tanto da rielaborare l’arte dell’omicidio come una categoria di genere.