Decisione coraggiosa quella della Scala di aprire la sua stagione operistica con Boris Godunov – un classico russo, di cui Aleksandr Puškin fece un dramma in stile romantico nel 1825 e che venne poi messo in musica con sentire patriottico da Modest Musorgskij nel 1870. L’opera invita ad una discussione sul destino scenico dell’eredità culturale del Paese invasore, così come ad una riflessione filosofica su come la violenza generi sempre nuova violenza in tutto il corso della storia russa.
Boris voleva essere un buono zar in un periodo di rivolte. Ma prima non era certo stato tenero come soldato. Il bambino coperto di sangue sul poster della Scala è il figlio dello zar Dimitri, presumibilmente ucciso da Godunov aspirante al trono. La visione del bambino sanguinante perseguita lo zar fino alla fine dei suoi giorni. Dalle lezioni di storia sappiamo che suo figlio cadde vittima di un altro colpo militare. Puškin si spinse a mettere in scena la tragedia shakespeariana (probabilmente ispirato dalla cronaca e solo dopo da Macbeth) della Mosca del XVI secolo, con multiple voci del popolo e lo stesso «Popolo» come un personaggio a sé stante, un corpo collettivo, che rimane silente alla fine dello spettacolo. Tradizionalmente questa scena è interpretata come la prova della passività politica dei russi.

IL LIBRETTO dell’opera fu scritto in un’altra epoca e con altre motivazioni. Modest Musorgskij, nevrotico, alcolizzato e brillante musicista, apparteneva al circolo dei compositori neoromantici conosciuti come Il gruppo dei cinque, sognavano di reinventare l’opera russa e di introdurla nell’ambito accademico. Riccardo Chailly ieri ha scelto di dirigere la prima edizione di Boris Godunov, rifiutata all’epoca dal teatro imperiale per la mancanza di un «elemento femminile». Un rifiuto che colpì emotivamente Musorgskij e che peggiorò la sua condizione. La prima edizione di fatto salta tutte le scene amorose tra la politicamente ambigua principessa lituana Marina Mnishek e il monaco fuggitivo Grigory. Una scelta che può essere interpretata come il desiderio di Grigory di sedere al trono di Mosca per il puro sentimento di giustizia nei confronti del figlio dello zar ucciso, piuttosto che per la sua inclinazione alla lussuria e alle avventure. Musorgskij voleva posizionare la tragedia di Boris tra la sua famiglia, il suo destino, il suo crimine – e il suo popolo. Lo jurodivyi – ascetico chiamato «stolto in Cristo» – è l’unico che pubblicamente parla dell’assassinio. Perché i pazzi e i giullari sono gli unici a cui è consentito dire la verità.

Il regista danese Kasper Holden, ex sovrintendente della Royal Opera House di Londra, promette una «controlettura» e una narrazione più avvincente basata su memoria e testimonianza. Ma la sua affermazione per cui «Musorgskij con la sua opera ha sfidato il potere» è molto discutibile. Tuttavia c’è una tradizione di «protesta» nella messa in scena del testo di Puškin, di cui fanno parte le versioni di Yuri Lyubimov e Andrei Tarkovsky negli anni ’70 proprio alla Scala dove Riccardo Chailly assisteva Claudio Abbado alla direzione. La recente versione drammatica Boris di Dmitry Krymov si prende gioco dei rituali putiniani del servilismo burocratico e promette un’inevitabile rovesciamento per il prossimo futuro.
Il console ucraino a Milano Andrii Kartysh ha inviato una nota al sovrintendente della Scala Dominique Meyer e al Presidente della regione Lombardia per spiegare come la scelta dell’opera russa sia un brutto colpo per gli ucraini che hanno trovato un rifugio temporaneo in Italia mentre le loro case sono bombardate o circondate da soldati russi. Il suo testo, intelligente e sensibile, fa parte di una più grande campagna portata avanti dagli artisti e intellettuali ucraini per protestare contro il «soft power» russo in Europa. Le motivazioni di coloro che si trovano sotto le bombe, il fatto che non vogliano più ascoltare una singola nota di Musorgskij né un verso di Puškin, sono difficili da negare ed eticamente più comprensibili di quelle dei Puškin Versteher – ironico soprannome usato dagli ucraini e traducibile con «Puškin friendly» per coloro che mettono in questione le colpe della Grande Cultura Russa nelle atrocità di Bucha.
Più delle enormi croci dorate o dell’aquila a due teste sul palco, il console ucraino deve essere rimasto offeso dal cast: Ildar Abdrazakov nel ruolo principale, probabilmente uno dei migliori cantanti lirici bassi dei nostri tempi, ma collaboratore di lunga data di Valery Guergiev, a sua volta fiero supporter e amico personale del presidente Putin.

ABRAZAKOV ha iniziato la sua carriera internazionale sul palco della Scala nel 2001, nei panni di Rudolf in La sonnambula di Bellini. La sua prima prova nel Boris fu nella parte modesta del contadino Mityukha, a Roma nel 1999 (ancor prima che Putin salì al potere) accanto al grande Ferruccio Furlanetti. Prima della guerra Abdrazakov interpretava Boris all’Opéra di Parigi nella messa in scena di Ivo van Hove. Al contrario di molti cantanti acclamati vicini al regime russo (Anna Netrebko, Aida Garifullina, Hibla Gerzmava), Ildar Abdrazakov ha continuato a girare l’Europa dopo il 24 febbraio, cantando Rossini a Zurigo e Verdi a Napoli.
La Scala voleva invitare la star ucraina Mikhail Didyk per la parte di Grigory, e il solista dell’Opera municipale di Kiev Andrei Gonuykov per la parte del monaco Valaam, la cui memorabile aria comica racconta le avventure militari del precedente zar Ivan il terribile in Kazan. Entrambi hanno rifiutato.

EPPURE Dominique Meyer ha deciso di tenere Boris in programma. I teatri dell’opera scelgono i titoli tre anni prima, ha spiegato a Radio France, Abdrazakov non è Guergiev, la cui Dame de piques è stata immediatamente cancellata e al cui posto sono stati organizzati alcuni concerti a sostegno delle vittime di guerra diretti da Ricardo Chailly. Poi la Scala ha ospitato a Milano gli studenti dell’Accademia del Balletto di Kiev insieme alle loro famiglie. Meyer comunque è piuttosto sicuro di sé nell’affermare il suo diritto a mettere in scena classici russi, si tratti di Puškin e Musorgskij, Rachmaninov o Tchaikovsky. La Scala ha una solida esperienza nella risoluzione di questo tipo di conflitti vista la particolare relazione che Arturo Toscanini aveva con Wagner e la sua messa in scena nel dopoguerra. L’opera rimarrà sempre un campo di battaglia politico, e forse è meglio che sia così.