Triplice appuntamento elettorale oggi in Serbia dove si vota contemporaneamente per le elezioni parlamentari anticipate, le presidenziali e le amministrative in 14 comuni, tra cui Belgrado. Elezioni su cui si allunga l’ombra minacciosa della guerra in Ucraina che ha avuto come effetto quello di stravolgere l’agenda politica.

In Serbia come in Ungheria, il conflitto ha costretto maggioranza e opposizione ad adattarsi alle nuove contingenze. Sulla falsariga della posizione del premier ungherese, Viktor Orbán, il capo di Stato serbo, Aleksandar Vucic, si è presentato agli elettori come il garante della pace e della stabilità nel paese.

DALL’INIZIO DELLA GUERRA, Belgrado ha mantenuto una posizione di equidistanza rispetto a Kiev e Mosca. Da una parte, ha votato a favore della risoluzione dell’Assemblea delle Nazioni unite che condanna l’aggressione russa, dall’altra si è ben guardata dall’allinearsi alle sanzioni imposte dall’Unione europea contro Mosca.

In ballo non c’è solo la dipendenza energetica della Serbia dall’alleato russo, ma anche il complesso delle relazioni con il Cremlino. Avamposto di Mosca nei Balcani, la Serbia ha sempre contato sulla Russia per ostacolare il riconoscimento dell’ex provincia serba, il Kosovo, in seno alle organizzazioni internazionali, Onu in primis.

Una presa di distanza da Mosca, è il ragionamento della dirigenza serba, avrebbe potuto inoltre innescare dei disordini interni e rivelarsi controproducente in campagna elettorale, considerato il forte sentimento filo-russo che caratterizza la società serba, alimentato da un’altrettanto forte propaganda che funge da megafono delle posizioni del Cremlino.

UNA LINEA, QUELLA SEGUITA da Vucic, difficile da contestare per l’opposizione che aveva impostato la sua campagna su tutt’altri temi, dalla lotta alla corruzione e alla criminalità organizzata fino alle proteste ambientali, uno dei temi più discussi nell’opinione pubblica, scesa in piazza per manifestare contro i piani del governo e della multinazionale australiana Rio Tinto riguardanti l’estrazione di litio a Loznica.

«La guerra è in Ucraina e non in Serbia» ha detto Zdravko Ponos, ex capo di stato maggiore dell’esercito serbo, candidato di “Uniti per la vittoria della Serbia”, la più grande coalizione che raggruppa i partiti di opposizione. L’obiettivo era quello di riportare i termini del dibattito sul piano interno.

Non un’operazione semplice per l’opposizione che si presenta al voto dopo due anni di assenza dal Parlamento. Alle scorse elezioni, tenutesi nel giugno 2020, l’opposizione aveva scelto di boicottare le elezioni per protesta contro l’iniquità del sistema politico ed elettorale e contro la deriva autoritaria impressa da Vucic.

La decisione si è rivelata un boomerang: piuttosto che delegittimare la dirigenza, l’opposizione ha finito con il relegare se stessa ai margini del dibattito pubblico. E nonostante cresca il malcontento attorno alla figura di Vucic e al sistema di potere – dai media all’economia – che ha catturato il paese, è improbabile che l’opposizione abbia la forza di proporsi come una reale alternativa nel paese.

LE LISTE PULLULANO di personaggi che vantano diversi cambi di casacca nel curriculum, volti noti e poco credibili, riciclati in occasione di un appuntamento elettorale che avrebbe potuto fare la differenza, se solo ce ne fosse stata la volontà. E così, salvo sorprese, Vucic dovrebbe aggiudicarsi la partita presidenziale già al primo turno, mentre il suo Partito del Progresso serbo (Sns) dovrebbe conquistare agevolmente il 50% dei voti, pur in calo rispetto alle ultime elezioni. Partita aperta invece a Belgrado dove l’opposizione spera in una vittoria che le consenta di tornare nell’agone politico.

Più imprevedibili sono invece le conseguenze del voto in Serbia sul piano internazionale e regionale. Finora Stati uniti e Ue hanno avuto un approccio morbido – almeno pubblicamente – nei confronti della linea seguita da Vucic sulla guerra in Ucraina, presumibilmente per interferire il meno possibile nella campagna elettorale.

C’è da aspettarsi quindi un aumento delle pressioni di Bruxelles e Washington perché Belgrado faccia una scelta di campo più netta tra Occidente e Russia. Una chiarezza che inciderà anche sul piano regionale, profondamente destabilizzato dall’azione di Mosca e di riflesso dalle ambiguità di Belgrado.

IN UN CONTESTO GIÀ ESPLOSIVO, con la Bosnia-Erzegovina attraversata dalla crisi più grave del dopoguerra, si sono riaccese le tensioni tra Serbia e Kosovo, non solo per la richiesta di Pristina di aderire alla Nato, ma anche per il rifiuto delle autorità kosovare a organizzare le elezioni nelle comunità serbe, come fatto finora. Una scelta criticata dall’Ue con possibili ripercussioni in Kosovo, dove i serbi potrebbero decidere di ritirare i propri rappresentanti dalle istituzioni.