Una scena di “Reas”

«Esattamente cinque anni fa sono entrata nella prigione di Buenos Aires per fare un workshop di recitazione, oggi presento il film, si chiude un cerchio». Così racconta Lola Arias, regista argentina attiva soprattutto nel campo della performance, ma da qualche tempo anche nel cinema. Alla Berlinale, nella sezione del Forum, ha presentato il suo secondo film Reas. «Volevo girare un documentario dentro al carcere, ma poi con la pandemia non poteva entrare più nessuno, nemmeno le famiglie. Allora ho pensato di realizzare il film fuori, nella prigione abbandonata di Caseros, con donne e persone trans che avevano vissuto l’esperienza della detenzione in passato». Re-enactement, composizione coreografica, performance musicale e critica al sistema carcerario si fondono nelle storie di questo gruppo. Un progetto dalla vocazione politica, come sempre lo sono le opere di Arias, che infatti ha un’idea piuttosto chiara di dove l’Argentina stia andando. «Da quando Milei è stato eletto le persone sentono di avere il potere di dire e fare cose che mi spavento molto. Per non dire delle sue scelte come chiudere l’istituto di cinema, chiudere l’istituto di teatro, tagliare i fondi della scuola di cinema. Tutto quello che ha a che fare con la cultura è stato attaccato. L’impatto è stato così forte da dare vita a un momento di lotta in Argentina, sono in tanti per strada a protestare davanti al Congresso. Ma ci sono ancora quattro anni, e molto da combattere».

Nel suo cinema come nel suo teatro il punto di partenza sono spesso le comunità.

Sì, le mie performance si basano su ricerche e interviste che vanno avanti per molto tempo, può essere definito un teatro documentario. E in questo processo cerco i protagonisti dei progetti, possono venire da comunità molto diverse: ho realizzato uno spettacolo con minori non accompagnati dalla Siria, così come con le donne del carcere. Cerco di creare gruppi in cui c’è un processo di empowerment, in modo che anche chi partecipa possa prendere qualcosa dall’esperienza e non solo io in quanto artista prendo da loro. Sono processi molto faticosi, ma danno tanto. E poi questi gruppi esistono ancora, anche se lo spettacolo non viene più rappresentato o se il film è finito, e questa è la cosa per me più interessante.

Perché ha scelto di lavorare con il re-enactement, portando «in scena» esperienze vissute?

La possibilità di performare nuovamente la propria storia dà gli strumenti per dire ciò che si vuole dire su quella specifica situazione. Non è solo una testimonianza, perché in questo modo si può cambiare il punto di vista su ciò che è accaduto. Ad esempio, tutte le persone del film sono state in carcere ma qui impersonano diversi ruoli: sono le secondine, le dottoresse, le avvocate…così si colgono prospettive diverse dalla propria e allo stesso tempo si può condividere il proprio punto di vista.

Perché ha dato vita ad una «coreografia» del carcere?

Credo che l’idea di «documentario musical», che di per sé è un controsenso, crei un crash che genera qualcosa di autentico. Le protagoniste raccontano storie che sono loro accadute ma in maniera più poetica. E così vediamo queste persone brillare, non sono solo delle vittime. Questo per me è molto importante: non stigmatizzare nuovamente chi è stato stigmatizzato, invece, imparare da loro, come nel film ho imparato a ballare il vogueing! D’altronde in carcere, e questo si vede in Reas, sono le persone dentro a scambiarsi saperi, non sono le istituzioni a dare loro strumenti per costruire il proprio futuro.

In questa costruzione, anche la musica è molto importante: quella danzata ma anche quella suonata dalle stesse detenute.

Sì, ci interessava capire quali generi gli piacessero, non volevamo imporre loro i nostri gusti. Per questo dal punto di vista musicale c’è una sorta di potpourri. I corpi in prigione sono sempre controllati, e tendono a riproporre alcuni movimenti ripetitivi, come uscire dalla cella, essere contati in linea, mettersi in fila per le telefonate…abbiamo preso questi movimenti come ispirazione per le coreografie, dandogli una forma più «fantastica».

In questo gruppo di detenute che ha immaginato ci sono insieme donne, uomini trans, donne trans.

Sì, volevo mettere loro al centro della narrazione e mi piace che il film metta in luce la loro forza. Nella comunità che abbiamo creato le persone si supportano l’un l’altra, ma si può vedere come il sistema carcerario abbia difficoltà a riconoscere queste diverse identità, o che comunque arriva fino a un certo punto. Ad esempio, dentro alcune hanno accesso al trattamento ormonale per cambiare sesso, altri no. È una tensione presente che abbiamo provare a rendere visibile.

Cosa vorrebbe da questo film?

Nel mezzo di questo disastro, in cui tutto sta collassando, abbiamo bisogno di altre narrazioni che incoraggino le persone a comportarsi in modo diverso, a connettersi con le comunità, a dare amore. E spero che il film contribuisca e dia un senso di speranza, perché non possiamo sempre sostare nel lato oscuro delle cose. Il progetto comunque non è finito: a marzo inizieremo le prove con lo stesso gruppo per fare uno spettacolo teatrale con cui poi gireremo il mondo. E sono contenta di poter dare a queste persone sia un’entrata economica sia la possibilità di vedere l’effetto delle loro storie.