Sono passati 48 giorni dal rapimento della cooperante italiana Silvia Costanza Romano, avvenuto lo scorso 20 novembre nel villaggio di Chakama, in Kenya. E a parte l’alternarsi di dichiarazioni delle autorità a volte ottimistiche a volte limitate per «questioni di sicurezza», la ricerca sembra trovare nuovi impulsi.

PRIMO, uno dei tre presunti rapitori sui quali la polizia ha messo una taglia, Yusuf Kuno Adan, sarebbe morto da sei mesi. Il certificato del decesso è stato mostrato ai media dal figlio. Un fatto che andrebbe approfondito, perché spesso in Kenya i certificati, da quelli di proprietà fino a quelli di nascita e morte, non vengono falsificati ma redatti ufficialmente negli uffici competenti, in modo “falso” pur essendo “veri”: basta mettersi d’accordo sul compenso (per questo ci sono, ad esempio, terreni che hanno tre o quattro proprietari tutti con documenti ufficiali emessi dall’ufficio competente).

SECONDO, nella zona del fiume Tana è stato decretato il coprifuoco. Terzo, la polizia ritiene con sicurezza che Silvia Romano sia in Kenya, «altrimenti ce ne saremmo accorti»: ovvero se fosse passata in Somalia da uno dei valichi di frontiera (quattro cittadine disperse nel deserto El Wak, Lafey, Liboi, Dhobley e una avvolta nella foresta Chiamboni). Il resto sono 682 chilometri di un confine sui generis: esiste solo per essere superato.
In base alle ultime informazioni di polizia si ritiene che Silvia Romano sia da qualche parte nel distretto del fiume Tana, un’area di 38.782 km quadrati “abitata” da pastori Orma e Wardei, da contadini Pokomo e da cacciatori Waata: gruppi in conflitto soprattutto per l’accesso alle risorse (pascoli, acqua, terra). I pastori sono arrivati dalla Somalia e dall’Etiopia nella zona del fiume Tana dopo la grave siccità del 1978-79, entrando in un’area tradizionalmente abitata dai contadini Pokomo.

LA TERRA nel distretto del fiume Tana non è di proprietari privati, ma è per lo più del governo e il sistema di proprietà fondiaria è in gran parte comunale. Tuttavia, nel dicembre 2000 c’era stato un conflitto violento a seguito di un tentativo del governo di assegnare titoli di proprietà della terra. I beneficiari sarebbero stati quasi esclusivamente contadini Pokomo: l’esito era stato di 130 persone uccise e 1000 Pokomo rimasti senza casa.
Ma il dato interessante è che nelle interviste ai residenti la maggioranza (60%) avevano riferito di non essersi sentiti al sicuro quando il governo ha fatto intervenire l’esercito durante il conflitto: «Molestavano la gente e picchiavano senza nessuna ragione». Questo spiega l’attuale difficoltà delle forze di sicurezza a trovare collaborazioni sul campo in un territorio dove lo Stato è percepito come contemporaneamente assente e oppressivo. Ma c’è un secondo fattore da tenere in considerazione: la struttura sociale della popolazione.

BISOGNA ENTRARE nella mentalità del clan: se una persona parla è finita non tanto in termini fisici, ma esistenziali la sua vita perde di significato e si riempie di maledizioni. Se a parlare è una persona di un clan rivale si rischia qualcosa di ancora più pericoloso: una guerra tra clan. Bisogna entrare nella mentalità di una società che non è fatta di individui come la nostra, ma di una società in cui l’io è contenuto nel noi. La ricerca continua.