«Farsi prendere le impronte digitali, in Italia, per loro significa finire la vita». Mi guarda dritto negli occhi Biniam e rimane in silenzio. Una pausa lunga, che toglie il fiato. Il suo sguardo contiene la voce di migliaia di persone, di storie, di vite. Vite che in questi anni di lavoro come mediatore culturale ha vissuto come se fossero la sua. Biniam è eritreo. Quando è arrivato lui, dieci anni fa, in Italia i centri di accoglienza non esistevano ancora. Lo incontro in via Giorgio Morandi, al civico 153 di un complesso di palazzine popolari, tra la fine di via Prenestina e la Palmiro Togliatti. «In questo momento abbiamo 84 persone tra iraniani, libici, siriani, eritrei, curdi e pakistani. Oltre all’ospitalità, garantiamo assistenza medica, legale, sociale e psicologica».

Il Centro A.m.i.c.i. dove Biniam lavora è un centro d’accoglienza molto particolare. Qui arrivano i «dublinati», o «Dublino di ritorno»: quei migranti che si sono spostati in un paese diverso da quello in cui sono entrati in Europa e che per l’applicazione del regolamento di Dublino, una volta individuati, vengono rispediti nel paese dove gli sono state prese le impronte digitali per la prima volta. Biniam dice che qui «a Giorgio Morandi» accolgono però solo i «dublinati» più «vulnerabili», che sono i minori, le persone con patologie per cui è necessaria una cura medica, le famiglie con un solo genitore, le donne che viaggiano sole e i nuclei famigliari in cui uno dei membri è malato.

Pensare un po’ prima al futuro

«Il progetto A.m.i.c.i.», co-gestito da Università Cattolica e Croce Rossa e finanziato dai Fondi europei per i rifugiati, «è nato per andare incontro a questa particolare categoria di richiedenti asilo». Il professor Emanuele Caroppo dell’Università Cattolica, direttore del progetto, mi spiega le ragioni che l’hanno spinto, insieme alla collega dottoressa Patrizia Brogna, a percorrere questa strada: «Ospitare al massimo 88 persone ci permette di personalizzare e velocizzare ogni intervento. Già il giorno dopo il loro arrivo i migranti ricevono la tessera sanitaria e in meno di una settimana i bambini entrano a scuola. In tre mesi riescono ad ottenere la risposta della Commissione in merito alla richiesta di asilo. Negli altri centri ci vogliono in media nove mesi! Per queste persone significa poter cominciare a pensare al futuro, un po’ prima».

L’incontro con la Commissione è il momento più delicato. Il migrante deve affrontare gli spettri della sua storia. E non è facile. Come per Said. È alto, magrissimo, il volto segnato. Lo incontro nel corridoio. Rimane per tutto il tempo in allerta, come pronto a scappare. Mi mostra una foto, l’unica che gli hanno permesso di tenere. Allunga le mani verso di me: «Le vedi queste? Non sono le mie». Se le porta al volto. «Questo non sono io». Said quando si guarda allo specchio non si riconosce e anche io faccio fatica a trovare qualcosa di lui in quella foto. In Pakistan Said lavorava per Save the Children, insegnava informatica ai bambini. Con il fratello avevano un negozio di computer. Ma internet per i talebani è una minaccia. Said trova la testa mozzata del fratello davanti alla serranda. E il negozio è ganimat, requisito in nome di Dio per il popolo.

«Per 41 giorni sono stato picchiato e torturato con le scosse elettriche». La storia di Said è complicatissima, non c’è di mezzo solo l’efferatezza dei talebani, ma anche quella dell’esercito pakistano che ti usa e poi cerca di eliminarti. «Mi dica perché non vuole tornare nel suo paese d’origine», recita il verbale. «Se torno rischio di essere ucciso dai talebani, ma questo è un problema che hanno tutti. Io ho paura delle torture dell’esercito. Quelli non ti lasciano né vivere né morire!”

La seduta con la Commissione è lunghissima. Sfiancante. Come il viaggio di Said. Dal Pakistan all’Iran. 6 notti. Alla Turchia. 3 notti. Alla Grecia. 17 giorni. Alla Macedonia, alla Serbia, all’Austria. Qui la sua richiesta di asilo non viene accettata. «Finisco in Italia», anche se non sa spiegare il perché. Prima a Milano, poi a Crotone, infine a Roma.

Un caso di patomimia

«Era di competenza di Crotone, ma lì non sono riusciti a capire come trattarlo e hanno chiesto il nostro intervento». Il professor Caroppo spiega che improvvisamente Said comincia a sanguinare, perde sangue ovunque, da occhi, bocca, naso, orecchie. Ma Said non soffre di nessun disturbo di coagulazione. La sua è una patomimia: in pratica “mette in scena” i traumi che ha vissuto e che non riesce a esprimere a parole. Per farlo usa il trucco dei fachiri pakistani: si ferisce il timpano, aspira il sangue in gola, si tappa il naso e decomprimendo lo spinge fuori da ogni orifizio. «Scoperto il meccanismo, abbiamo cominciato ad ignorare queste manifestazioni, finché ha smesso». A quel punto Said comincia a tirar fuori i ricordi, ma siccome sono troppo dolorosi lo fa identificandosi con il suo aggressore. «Io ho messo bomba! Io ho ucciso!». Poi, durante una seduta, mentre cerca di raccontare di quando la sua ragazza è saltata in aria, scoppia a piangere. «In quel momento Said mi dice: “Dottore, è la prima volta che non piango più sangue ma piango lacrime vere”. Ecco lì ho capito che potevamo cominciare il vero lavoro di recupero».

Incontro la dottoressa Brogna al complesso dei villini di via Grotte di Torre Rigata, poco fuori la via Tiburtina. È questa la sede che, dalla fine di febbraio, sostituirà il Centro A.m.i.c.i. e accoglierà tutti i dublinati, non solo quelli vulnerabili. «Abbiamo chiamato questo nuovo progetto “Arco e Arca” proprio perché il nostro ruolo è di traghettatori. Aiutiamo i nostri ospiti a recuperare il senso di fiducia che hanno perso negli altri, per spingerli di nuovo a muoversi nel mondo». Saroghi però non si vuole proprio spostare. «Patrisia, why i must leave my room?». Nel suo inglese stiracchiato quest’uomo minuto chiede perché deve lasciare la sua casa. Tra una settimana verrà mandato a Latina. Si è liberato un posto allo Sprar (che si occupa di seconda accoglienza). Lì avrà un lavoro e l’aiuto di qualcuno che nel frattempo si occuperà della figlia. Mentre ascolta, Saroghi ha gli occhi di terrore. Fa resistenza, vuol lasciare quella certezza appena afferrata.

Maliheh invece è determinata a lasciare l’Italia. Con il marito e la figlia sono scappati dall’Iran per questioni religiose. In Svezia sono rimasti 6 mesi. Avevano un appartamento tutto per loro. «Non come qui». Anche il cibo era buono. «Non come qui». Però la gente in Italia è bella e generosa. Non come in Svezia. Ma è lì che è vuole tornare, anche perché «in Italia per lavorare devi sapere la lingua» ed è stanca di aspettare.

Polizia italiana «malissima»

Giuliette, invece, al complesso dei villini ha la sensazione di vivere in una casa «vera». Suo marito, Bashar, era il direttore dell’ufficio legale di una grande multinazionale americana. «A Damasco avevamo 3 auto e un casa di 240 metri quadri. Adesso non abbiamo più nulla». «Anche qui, quando siamo arrivati non c’era niente. Il frigorifero e il divano li ho dovuti comprare dai rom per 20 euro». In Svezia, a due ore dall’atterraggio, avevano già un appartamento e una carta di credito con 600 euro. All’aeroporto di Fiumicino sono rimasti 3 giorni, dormendo sulle poltroncine, senza poter prendere i pannolini dalla valigia per la bambina. Con un panino e una bottiglia di acqua. «Credevo che la polizia in Siria fosse malissima. Quando ho visto quella italiana, la polizia siriana angeli!».

Biniam dice che quasi tutti sanno del trattato di Dublino. Grazie al passaparola. Però partono lo stesso perché «sperano di essere tra i fortunati». Su 100, 70 non vengono fermati. «Il Regolamento ha l’obiettivo di evitare gli spostamenti dei richiedenti asilo dal paese di prima accoglienza, loro invece hanno l’obiettivo di raggiungere il paese in cui pensano di sentirsi maggiormente tutelati». Se non ci riescono subito, ci riprovano. E Biniam non riesce a biasimarli.

Lui qui ha un lavoro, una casa. Ma la sua vita rimane “sospesa”. «Il mio permesso va rinnovato ogni 2 anni. Se voglio trasferirmi dai miei fratelli in Inghilterra non lo posso fare. Loro dopo 5 anni hanno la cittadinanza, io che sono stato il primo a uscire dall’Eritrea non ce l’ho».

Prima di salutarci, Biniam mi confessa: «Faccio il mediatore, dovrei riuscire a convincere le persone a rimanere in Italia, ma come posso, se in fondo, qui, sono io il primo a non sentirmi accolto».

* Questo articolo è uno dei lavori finali del corso «Il reportage sociale» tenuto da Giuliano Battiston e Massimo Loche alla Scuola del Sociale della Provincia di Roma