Editoriale

L’Occidente alla rivalsa anti-cinese

Coronavirus «Flussi incontrollati di affermazioni scientificamente infondate o del tutto false, dichiarazioni irresponsabili di esponenti politici, provvedimenti incomprensibili di enti locali e un’informazione ossessivamente concentrata sul Coronavirus hanno dato luogo a […]

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 7 febbraio 2020

«Flussi incontrollati di affermazioni scientificamente infondate o del tutto false, dichiarazioni irresponsabili di esponenti politici, provvedimenti incomprensibili di enti locali e un’informazione ossessivamente concentrata sul Coronavirus hanno dato luogo a una vergognosa ondata di sinofobia nel nostro paese»: parole illuminanti e definitive queste di Gianni Rufini, direttore di Amnesty International, che fra l’altro accusa: ne faranno le spese i più deboli, le bambine e i bambini, esclusi dal loro diritto all’educazione. Così il gesto di ieri del presidente Mattarella di andare in una scuola frequentata da bambini cinesi, ha un immenso valore civile.

Ma forse vale la pena aggiungere qualcosa di più. Perché l’impressione che si ricava dall’opinionismo-ideologismo diffuso in rete, in tv, nei media sull’epidemia di Coronavirus – forse più della stessa paura per un morbo comunque pericoloso -, è che con la Cina si voglia andare ad una rivalsa. Perché il vento anti-cinese spira da tempo, è stato anticipato dall’ideologia dell’America First di Donald Trump che ha fatto della Cina il suo principale nemico strategico, nell’intento di rimettere la Cina e i cinesi «al loro posto». Evocando il racconto che fino a metà degli anni Ottanta, collocava i cinesi tra i «brutti, sporchi e cattivi» della storia, con questa loro mania sessantottarda di un altro modello di sviluppo.

E poi con la pretesa di volere gareggiare con il capitalismo che, a fine anni Sessanta, con la Rivoluzione culturale, ancora rifiutavano. Lì da tempo hanno sconfitto quelle “manie” alternative trattando da «banditi» quelli che si battevano per un altro modello di sviluppo; lì anzi è cominciata una “lunga marcia” al contrario rispetto all’evento maoista degli anni Trenta. Vinse, con grande plauso dell’Occidente, la «linea capitalista»: abolizione delle 60mila Comuni popolari, rottura della distribuzione egualitaria del lavoro nelle campagne, industrializzazione forzata in zone speciali iper-capitaliste (iper-sfruttamento dei lavoratori senza garanzie e sindacato), privatizzazione di ampi settori delle aziende di Stato, rottura del pur misero welfare cinese della pentola di ferro, eradicazioni sociali e migrazioni interne per centinaia di milioni di persone. Tutto sotto la guida di un centralizzato Partito comunista. Una sequenza che rende evidente come la rivolta di Tian An Men, ridotta dalla vulgata dei media alla sola protesta studentesca con il fine della democrazia americana, era in realtà un sommovimento di più vasta portata, anche contro il modello vincente «ipercapitalista di partito», una rivolta epocale che coinvolgeva classe operaia, contadini e studenti.

Ma, ecco il punto, dall’89 in poi cambia la percezione occidentale della Cina: è antidemocratica ma è pur sempre il nuovo più grande mercato import-export del mondo. Il trend è così vero che la Cina in 15 anni diventa di fatto l’unico vero paese capitalista al mondo, con una crescita del Pil da picchi del 7-8% e il reinvestimento dei capitali, impensabile in Occidente dove primeggia la speculazione finanziaria; e con una capacità produttiva che la trasformerà nella fabbrica del mondo intero. A questo punto da «brutti, sporchi e cattivi» che erano, i cinesi diventano la salvezza; molte multinazionali risolvono le loro crisi grazie al mercato cinese ormai capace, nello scambio, di rivenderci anche know-how.

E alla fine, con lo storico ingresso nel Wto dell’11 dicembre 2001, Pechino diventa il volano dell’economia mondiale. Ma non basta, perché con il precipizio della crisi del finanz-capitalismo occidentale del 2008-2009, Pechino con i suoi massicci investimenti e con le proprie riserve monetarie corre in soccorso del disastro debitorio dell’Occidente; fino a diventare mega-polo produttivo ecologico anche per rispondere alla devastazione interna provocata dall’iperproduttivismo realizzato ad imitazione dello sviluppo distruttivo del capitalismo occidentale. Insomma i cinesi diventano pericolosamente necessari e meglio di noi. Al punto che, arrivato al potere negli Stati uniti lo psycho-populista Trump, parte la stagione dell’America First con la guerra dei dazi contro il concorrente strategico rappresentato dalla Cina: si avvia così l’ideologia della «rivalsa» anti-cinese.

Ora il Coronavirus sembra mettere in discussione tutto questo. È infatti una sorta di «auto-dazio» che inconsapevolmente la Cina si è inflitta – i diktat di Trump impallidiscono al confronto. In discussione sono le realizzazioni cinesi (dalla crescita del Pil, al commercio mondiale); il Coronavirus insidia anche la primazia del Partito comunista nella direzione «morale» di Xi Jinping, che ora dovrà approfondire il tema storico arretratezza-sviluppo che l’epidemia ripropone; così come, in qualche nodo, dovrà affrontare l’idea fin qui seguita di una Grande Nep – una fase intermedia di capitalismo controllato per fondare le basi del socialismo cinese moderno, secondo il dettato di Deng Xiaoping.

L’epidemia inoltre mette alla prova l’autoritarismo anti-democratico di Pechino, anche nel dominio del centro sulle città (così vaste e abitate, come Wuhan, da essere di fatto degli Stati). Eppure va da sé che le quarantene forzose, militari delle megalopoli cinesi – che stupiscono quanto a decisionismo per bloccare l’espandersi del virus – potevano ahimé essere realizzate solo da «questa» Cina. Dove le domande ineludibili su che cosa sia diventata la sanità pubblica, la ricerca, i diritti umani – i presidi decisivi contro ogni morbo o calamità – tornano di drammatica e politica attualità. Proprio come in Occidente. Perché nella mancanza di informazioni tra autorità locali e governo centrale cinese va letta la stessa dinamica occidentale tra città, regioni ed esecutivi nazionali (per terremoti, crisi dei profughi, clima, ambiente), fatta di scarico di responsabilità, disinformazione e minimalismo che siamo abituati a vedere; piuttosto che un conflitto strategico centro-periferia pure già esploso in Cina – come nel caso di Bo Xilai per la megalopoli Chongchinq, dove si trattava di un conflitto sul patto sociale che l’ex sindaco, ora in galera, proponeva alle nuove figure dei contadini-operai immigrati. Ma è probabile che il Coronavirus riapra anche questo scontro.

E allora in Occidente esplode l’ideologia della rivalsa: i cinesi tornino «brutti, sporchi e cattivi». E straparlano tutti gli ideologi-opinonisti che finora tacevano sulla crescita dell’economia cinese e sulla «Via della Seta» – che ora rischia di diventare “La Via del virus” – anche se, in verità, resta però ancora l’unica proposta di sviluppo internazionale che (consapevoli che l’imperialismo si fa anche con il prezzo dello zucchero e non solo con le cannoniere) escluda l’approccio all’uso della forza e alla guerra come invece ci ha abituati la pratica occidentale.

Per parte nostra, ancora convinti che le forme del riscatto di quel popolo ci riguardino da vicino, restiamo, certo assai criticamente, filocinesi.

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