A tre anni di distanza dai fatti, il Centro nazionale per il controllo delle malattie cinese ha fornito nuovi dati sulla presenza del virus SARS-CoV-2 al mercato ittico di Huanan, a Wuhan. Lo ha fatto in uno studio pubblicato ieri sulla prestigiosa rivista Nature, secondo cui molti campioni biologici raccolti il primo gennaio 2020 tra le bancarelle erano positivi al coronavirus.

Tuttavia, concludono, non è una prova che la pandemia sia partita dal mercato. Il virus è stato trovato sulle attrezzature del mercato, sui pavimenti e nelle acque reflue ma i tamponi sugli animali sono risultati negativi.

DOPO LO SCOPPIO dell’epidemia, il primo gennaio 2020 il mercato fu chiuso. I ricercatori allora prelevarono 923 campioni dal mercato ormai vuoto e, rivelano oggi, 73 risultarono positivi. Non hanno rilevato il coronavirus altri 427 tamponi effettuati sugli animali venduti al mercato. Secondo i ricercatori cinesi, nell’ala ovest del mercato si potevano acquistare ovini, volatili, roditori, pipistrelli ma anche serpenti, salamandre e coccodrilli (vivi).

La grande domanda rimane: è stato uno spillover partito dagli animali in vendita a contagiare gli umani, o il mercato ha agito solo da «evento superdiffusore» per un virus già circolante, magari per una fuga di laboratorio? I ricercatori cinesi non si sbilanciano.

Sottolineano che in molti campioni biologici in cui era presente il virus è stato trovato anche il Dna di procioni, ritenuti una potenziale «specie serbatoio», insieme a quello di tante altre specie comuni che transitavano per il mercato come polli, bovini ed esseri umani.

Ma ciò non prova che i procioni fossero infetti. D’altra parte, il fatto che i campioni positivi siano stati trovati in uguale proporzione tra i banchi di frutta e verdura, carne o pesce li scagionerebbe. Lo studio segnala anche che diversi di campioni, analizzati con tecniche diverse, hanno dato risultati contraddittori. Più nebbia che certezze.

UNA PARTE della comunità scientifica ha espresso dubbi sullo studio già poche ore dopo la pubblicazione. Come fa notare Alice Hughes dell’università di Hong Kong, i ricercatori cinesi ipotizzano che al mercato fossero presenti anche scimpanzé e persino panda: improbabile, il traffico di questi orsi in Cina è punito con 10 anni di carcere. Più probabile che i test siano sbagliati.

La virologa canadese Angela Rasmussen, una tra i ricercatori che hanno raccolto più evidenze sul ruolo dei «wet market» nella diffusione del coronavirus, sottolinea via social un’altra anomalia: «I ricercatori cinesi hanno atteso tre anni prima di condividere con la comunità scientifica dati cruciali» senza alcuna spiegazione, per poi pubblicare uno studio pieno di errori.

Rasmussen ritiene lo studio funzionale alla versione auto-assolutoria di Pechino: «Questa analisi sbagliata punta ad avvalorare ipotesi alternative allo spillover, come la superdiffusione di origine umana o l’arrivo del virus dall’estero attraverso prodotti alimentari mal conservati».