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Lo «strano» rapporto con Hezbollah dei giovani cristiani di Beirut

Lo «strano» rapporto con Hezbollah dei giovani cristiani di BeirutBlocchi stradali a Beirut – Hassan Ammar/Ap

Libano «A Netanyahu non importa dell’Onu, ma speriamo che i vostri soldati restino qui»

Pubblicato circa un'ora faEdizione del 6 ottobre 2024

«Non possiamo dimenticare quello che Hezbollah ha fatto al Libano e a noi, ma a voler essere completamente onesti bisogna riconoscere che sono gli unici che hanno difeso i confini al sud contro Israele». La famosa vita notturna di Beirut in queste settimane è quasi silente, pochi i locali aperti e tra questi molti chiudono presto. Né in città né nel resto del Paese vige il coprifuoco, tuttavia le strade di notte sono quasi deserte. E se si esce dalla capitale il contesto è ancora più spettrale.

I FIGLI della media borghesia cristiana hanno ancora qualcuno dei loro punti di ritrovo che resiste, nonostante la paura dei bombardamenti israeliani. In uno di questi incontriamo George seduto sul cassone di un grosso pickup insieme a degli amici. «Non è il momento migliore per vedere Beirut eh?» ci dice sorridendo. Quando gli chiediamo della situazione scuote le spalle, «guardatevi intorno… molti hanno paura anche di uscire ormai». La colpa è di Hezbollah? «Certo che la colpa è loro, per anni hanno tenuto questo Paese in ostaggio» interviene un altro ragazzo, vestito con un cappello di una squadra di basket statunitense e una canottiera che lascia il fisico palestrato bene in vista, «ci hanno rovinato». Ma se non combattono loro chi combatte? Non crede che in qualche modo stiano difendendo il Libano? George è d’accordo, l’altro gli dice qualcosa in arabo e per qualche secondo discutono. «A che prezzo?» riprende l’altro, «io non li voglio questi difensori, hai idea di cosa abbiamo dovuto subire da quando siamo piccoli: spostarci nel nostro stesso territorio è difficile, ci sono dei check-point, chiedono soldi, bisogna sempre stare attenti… ti sembra vivibile?».

GEORGE è meno perentorio: «Il problema è che lo stato non fa quello che dovrebbe. I nostri politici si occupano più di mantenere il potere che di cambiare la situazione». Ma se Israele non avesse attaccato, proviamo a insistere, «certo che il problema è Israele! Non c’è nulla di nuovo, da quando sono arrivati i palestinesi non abbiamo mai più avuto pace e lo stato ebraico ne ha approfittato perché è più forte». Poi iniziano a parlare tra di loro e smettono di considerarci. George salta via dal cassone e ci saluta, si allontana di qualche passo ma poi ha come un ripensamento: «Credete che la missione dell’Onu se ne andrà come vuole Tel Aviv?». Rispondiamo che il Segretario generale Guterres ha risposto che resteranno lungo la Linea Blu. «A Israele non frega niente dell’Onu» conclude laconico, «ma speriamo che i vostri soldati restino qui, anche se non fanno niente la loro presenza è importante per tenere a freno Netanyahu».
Un altro ragazzo, camicia blu e giacchetta di velluto da intellettuale d’antan, sposta il discorso sulla filosofia. «Questa è la volta buona che ce ne liberiamo. Pensa alla storia, ogni guerra è un’opportunità, finito il conflitto si riparte, le cose ricominciano da zero e si può fare meglio». Ma anche peggio. «Non credo, guarda la storia…» insiste. Ma di quale storia parla? «L’Europa dopo la Seconda Guerra mondiale per esempio». Ci viene un dubbio, «il problema non è che sono i musulmani?». Joseph, che ha studiato sicuramente all’estero e usa un lessico pieno di «resilienza» e «proattività», ci guarda un po’ stupito: «Sono gli sciiti, e neanche tutti, quelli che stanno con Hezbollah».

PER TUTTA LA SERA riceviamo risposte simili che potremmo riassumere in due categorie: da un lato chi critica Hezbollah a prescindere e lo incolpa di ogni problema del Libano, dall’altro chi lo critica ma riconosce che è l’unico che si è opposto alle operazioni militari israeliane. Allo stesso modo la politica libanese si è divisa: alcuni gruppi cristiani hanno dovuto riconoscere l’importanza di avere una milizia armata e addestrata in un Paese in cui l’esercito è finanziato dagli Usa e viene impiegato quasi solo nelle città. Altri si sono silenziosamente schierati con Tel Aviv, sperando a ogni occasione che Hezbollah fosse sconfitto e la questione dei rifugiati palestinesi tornasse a essere solo un problema sociale e non, come viene definito, di «stato nello stato». In molti indicano l’attuale capo dell’esercito, Joseph Kalil Aoun, cugino dell’ex-presidente Michel ma non sulla stessa linea politica, come colui che potrebbe risolvere questa divisione. Il generale si è addestrato più volte negli Usa, ha ottimi rapporti con la Francia (dove si è recato in visita per incontrare Macron, caso piuttosto raro) e gode dell’appoggio di altri schieramenti oltre a quelli cristiani, dai drusi a una parte dei sunniti ostili a Hezbollah.

MA PARLARE di una figura di unità al momento è difficile e non è detto che le analisi attuali sullo schieramento dei diversi partiti politici confessionali si rivelino corrette alla conta delle schede. Inoltre, il Paese attende con il fiato sospeso di capire quale sarà l’esito della guerra in corso tra il Partito di Dio e Israele. È evidente che se Hezbollah non venisse sconfitto parlare di ridistribuzione dei pesi politici sarebbe inutile e chissà che persino qualcuno dei giovani maroniti non cambi idea.

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