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Lo spettro della Brexit e il futuro del cinema «made in Uk»

Lo spettro della Brexit e il futuro del cinema «made in Uk»

Cinema Nel post-elezioni, tre produttori raccontano il legame dell’industria audiovisiva inglese con l’Ue

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 13 giugno 2017

«L’epoca della letteratura nazionale è passata e sono imminenti i tempi della letteratura del mondo». Cita Goethe Mike Downey per parlare dell’idea di Europa e soprattutto di cultura europea, la stessa messa in pericolo dal voto inglese per uscire dall’Unione. «Dal punto di vista dell’industria audiovisiva inglese la Brexit è una mossa disastrosa, le cui conseguenze saranno percepite ovunque», dice Downey, produttore inglese e membro del comitato direttivo dell’European Film Academy.

Tra i colpi più duri che la Brexit – e specialmente la cosiddetta Hard Brexit – comporterebbe per il cinema inglese c’è l’uscita dal programma Creative Europe, pensato proprio per agevolare la produzione e la circolazione dei prodotti artistici europei attraverso i paesi dell’Unione: «Nel periodo che va dal 2007 al 2013 – spiega Downey – il Regno Unito ha beneficiato di 100 milioni di euro stanziati da questo programma. Nel biennio 2014/2015 invece Creative Europe ha supportato 230 organizzazioni culturali e audiovisive inglesi, oltre alla distribuzione cinematografica di 84 film britannici in altri paesi europei, con finanziamenti di oltre 40 milioni di euro».  

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La possibile uscita da Creative Europe è il primo rischio evidenziato anche dalla produttrice Rebecca O’Brien, a capo della Sixteen Films , che ha usufruito degli aiuti di questo programma in più occasioni nella fase di sviluppo dei suoi progetti. «Se restiamo tagliati fuori dal ’club’ dovremo pensare a modi alternativi di finanziare lo sviluppo dei nostri film».
La retorica dei brexiteers ha spesso fatto appello ai fantomatici costi che fare parte dell’Unione Europea comporterebbe per l’Inghilterra. Una retorica facilmente smontata – almeno per quanto riguarda l’industria creativa – dalle valutazioni fatte da Mike Downey proprio su Creative Europe e i 40 milioni di euro investiti nel Regno Unito tra il 2014 e il 2015, e cioè il 13% del budget complessivo del programma in quei due anni: 319 milioni di euro. «Un paragone favorevole per la Gran Bretagna, che nello stesso periodo ha contribuito al finanziamento del programma con circa 30 milioni, ovvero il 10,7%».

Un altro mantra dei fautori della Brexit riguarda invece la svalutazione della sterlina, che dovrebbe rendere più allettante per i produttori stranieri l’idea di girare nel Regno Unito: con le parole di Downey è «la retorica del governo Tory di Theresa May, per la quale l’intero mondo vorrà fare affari con i ’brits’». Una retorica, sottolinea però Downey, che non tiene conto dell’«elefante nella stanza»: cosa accadrà nel corso dei futuri accordi commerciali, ad esempio con gli Stati uniti? «Molti Stati americani in cui Trump ha un enorme supporto hanno già dei Tax Credit (sgravi fiscali, ndr) cinematografici: una seria negoziazione con gli Usa potrebbe quindi comportare la richiesta che il Regno Unito abbandoni il proprio Tax Credit per il cinema», soprattutto se si considera la quantità di posti di lavoro che l’industria dello spettacolo statunitense sta perdendo in favore di quella canadese, neozelandese e anche inglese.

Un secondo problema posto dalla Brexit, osserva Rebecca O’Brien, sarà «mostrare i film inglesi fuori dal Regno Unito e viceversa far arrivare in Inghilterra i film europei: Creative Europe sostiene la distribuzione all’interno dell’intero continente». Il danno alla circolazione dei film non riguarderà dunque soltanto l’industria inglese, ma in generale quella di tutta Europa dato che diventerà più oneroso importare i film in un mercato importante come quello del Regno Unito.
Inoltre, prosegue O’Brien, a essere a rischio è la libertà di movimento: «Se per esempio produciamo un film insieme al Belgio – come nel caso di I, Daniel Blake di Ken Loach – beneficiamo automaticamente del loro sistema fiscale, di finanziamenti alla produzione e così via. Ma questo significa che dobbiamo dare qualcosa in cambio». È il sistema delle co-produzioni europee, anch’esso messo in pericolo dai confini meno permeabili voluti dal Brexit.                                                             

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«Le persone della mia età ricordano i tempi in cui il Regno Unito non era ancora membro della Comunità Europea», racconta Nik Powell, produttore e direttore della National Film and Television School. «All’epoca caricare tutto l’equipaggiamento su un camion e partire per girare, per esempio a Parigi, era un’impresa molto complessa. Tutti problemi di cui fare parte dell’Unione europea ci ha liberati. Se il Regno Unito lascia l’Ue senza prendere alcun accordo preventivo perderemo gli aiuti economici stanziati non solo per le distribuzioni ma anche per i produttori britannici. E ci saranno anche problemi per l’esportazione di programmi televisivi, videogiochi e così via. Tutto diventerà più costoso e complesso da gestire».
Le coproduzioni però, assicurano Rebecca O’Brien e Mike Downey, continueranno a esistere in quanto sono garantite dalla Convenzione Europea sulle coproduzioni cinematografiche, che non coinvolge l’Unione, ma il Consiglio europeo.

Tuttavia il futuro è pieno di interrogativi, e su ciò che i negoziati per l’uscita dall’Europa del Regno Unito comporteranno per la collaborazione artistica nel continente non si possono avere certezze: «Prima delle elezioni pensavamo di andare incontro a una Hard Brexit – dice O’Brien – ma ora tutto è di nuovo in gioco, non possiamo sapere nulla per certo». D’altronde, osserva Nik Powell, «non sappiamo ancora neanche chi sarà il nuovo Primo ministro». Se si riuscisse a formare un governo laburista, dice però O’Brien, «sono certa che avrebbe molto più a cuore la libertà di movimento, il raggiungimento di un accordo che aiuti le persone e il loro lavoro piuttosto che isolarci dal resto dell’Europa come promesso dal governo di Theresa May».

Oltretutto quasi dieci anni di Tories hanno anche danneggiato l’industria creativa sul territorio: i tagli al budget governativo per le arti hanno di gran lunga diminuito l’accesso dei giovani della working class alla formazione artistica. Cinema e tv inclusi come testimonia Nik Powell, da 17 anni direttore della National Film and Television School: «Con i tagli che ci sono stati imposti dal 2008 le tasse scolastiche sono aumentate, cosa che ovviamente limita l’accesso. Ma comunque siamo riusciti a ottenere il supporto dell’industria audiovisiva e di altri investitori per riuscire a mantenere l’accesso alla scuola il più aperto possibile».                                                              

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Anche se il futuro resta incerto, Mike Downey ha una proposta per provare a far fronte alla Brexit: «Cercare di mantenere il nostro status all’interno di Creative Europe. Il regolamento prevede infatti che anche dei paesi non appartenenti all’Ue possano farne parte». Secondo Nik Powell, proprio la batosta subita dai Tories alle elezioni potrebbe rendere possibile un simile accordo, nell’ottica di una Soft Brexit: «Le elezioni hanno dimostrato che non c’è nessun desiderio nell’elettorato, né nell’industria creativa, per la cosiddetta Hard Brexit». Anche Rebecca O’Brien si augura una simile soluzione anche se, dice, «sarà molto difficile».
In gioco c’è qualcosa che va molto al di là dei finanziamenti al cinema, anche se sembra meno tangibile: «La sensazione – dice Downey – di far parte di una comunità internazionale di filmmakers che condividono idee, pratiche, talenti e lavorano insieme per creare qualcosa di più grande della somma delle proprie parti».

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