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Lluís Miñarro, grottesco e poesia del cinema

Lluís Miñarro, grottesco e poesia del cinema

Intervista Il regista catalano racconta in anteprima «Emergency Exit», il suo prossimo film, in uscita nel 2025

Pubblicato 43 minuti faEdizione del 19 ottobre 2024

Fra i cineasti catalani del nostro tempo, Lluís Miñarro è certamente il più propenso ad abitare quell’emblematica frontiera dello spirito che separa seny (razionalità) e rauxa (follia). Emergency Exit, il suo ultimo film, visto in sala di montaggio, compendia le principali coordinate di un universo che, negli anni, abbiamo imparato ad amare senza condizioni: alto e basso, kitsch e sublime, astrazione e concretezza. Trascendenza e immanenza. Le contraddizioni di Miñarro, meravigliose, sono tutte lì: da una parte, lo slancio verso la metafisica dell’essere (come in Familystrip e Blow Horn), dall’altra, il culto viscerale per la carnalità dei corpi (come in Stella cadente e Love me not).

Il bardo tibetano è trasfigurato in uno spazio onirico sempre cangiante, proiettato oltre ogni possibile iperuranio di marca new age: molta terra, poco cielo. Riaffiorano alla mente, vedendo il film, i versi secenteschi di Francisco de Quevedo: «Quella non è la morte, ma i morti o ciò che resta dei vivi. Voi non conoscete la morte, e voi stessi siete la vostra morte, essa ha il volto di ciascuno di voi e siete tutti morte di voi stessi».

Un autobus risalente all’année érotique, 1969, che sfreccia verso l’ignoto. Verso l’ineffabilità dei gironi d’oltretomba. Verso una rinascita extradimensionale? Uomini e donne che invece di fare tabula rasa dei propri fardelli, liberano istinti repressi e seminano al loro passare piccole grandi meschinità. Fra di loro, malinconica e assente, anche una passeggera giapponese, Naomi Kawase, che stringe a sé le ceneri di un essere amato. E poi, fra scampoli di varia umanità, una grande attrice, Marisa Paredes, che gioca con la propria storia personale e i residui di una raggiante presenza iconografica (commoventi gli omaggi a Bernardo Bertolucci, Marcello Mastroianni, Gabriel García Márquez e Pedro Almodóvar); due adorabili pin-up fuori dai canoni, Arielle Dombasle (musa di Éric Rohmer) e Myriam Mézières (musa di Alain Tanner), prese a irridere l’incedere dell’età; un cineasta, Albert Pla, che ricorda molto Albert Serra (assonanza voluta?), travolto dalle più disarmanti tentazioni dell’ego; un sacerdote cattolico, Oriol Pla, deciso ad affrontare, fra varie resistenze, gli istinti desideranti per troppo tempo soffocati sotto i colpi di una feroce autorepressione. Grottesco e poesia. A vegliare sulle pedine dell’intrigo, un angelo sterminatore che, un po’ come il Terence Stamp del Teorema pasoliniano, si fa catalizzatore dei desideri inespressi: chi lo ama, lo segua.

Di tutto questo, e molto altro, parliamo con Lluís Miñarro a Barcellona, presso la sede di Antaviana Films, dove è attualmente in corso la postproduzione di Emergency Exit.

La tua è una libertà d’approccio, un’anarchia di spirito, che ha scarsissimi termini di paragone nel cinema contemporaneo e ci costringe a tornare, una volta di più, sull’opera di alcuni fra i più vitali sperimentatori degli anni Settanta, da Vecchiali a Eustache, da Padrós a Metzger, da Meyer a Waters (via Buñuel, ovviamente). Underground 2.0? Dinamite in seno all’ovvio?
Sono figlio degli anni Settanta, periodo carico di fermenti straordinari che hanno senz’altro forgiato il mio modo d’intendere la vita. Questo caos di tendenze, questa commistione fra alto e basso, kitsch e sublime, come giustamente dici, è parte integrante della mia cultura. Nutro una grande passione per gli autori che hai citato. E poi, naturalmente, per il cinema classico. Hitchcock, ad esempio: lo chignon di Emma Suárez in Emergency Exit è modellato su quello di Kim Novak in Vertigo. Buñuel, inutile dirlo, è sempre presente. Scrivendo Emergency Exit, avevo in mente soprattutto tre film: Subida al cielo, La ilusión viaja en tranvía e L’angelo sterminatore. Inoltre, devo molto del mio immaginario agli scrittori latinoamericani che ho conosciuto quando ero giovane, frequentando la Semana Internacional de Cine en Color di Barcellona: su tutti, Gabriel García Márquez, Mario Vargas Llosa e Roberto Bolaño.

Marisa Paredes dice nel film, in un momento cruciale: «Anche il sesso è politica». Chi vive i nostri tempi dall’osservatorio privilegiato della marginalità – tempi di nuovi autoritarismi e propagande vetuste, squadrismo sessuofobico e inviti coercitivi alla virtù – non stenterà a capire il senso più profondo di questa affermazione.
Chi controlla i costumi sessuali, controlla l’autonomia dell’individuo. Nel film, Marisa Paredes dice che l’orgasmo coincide con il più supremo istante di libertà. Nel momento in cui il corpo sperimenta l’orgasmo, l’identità si annulla, si disperde, non esistiamo più.

«Emergency Exit» è cinema che parla di cinema: molto bella la scelta di giocare con i trasparenti, di alternare esterni reali ed esterni fittizi, come nel cinema americano classico. In barba a chi pensa, oggi come ieri, che sia più «onesto» il cineasta che nasconde l’artificio rispetto a colui che lo esibisce.
Prima di tutto ho filmato in camera car alcune viste panoramiche, alle Canarie e sui Pirenei. Il risultato di queste riprese è stato successivamente applicato, nel buio del teatro di posa, a una retroproiezione che dà l’illusione di un veicolo, quello su cui parlano e si muovono i personaggi, in perenne movimento. La finzione, però, è assolutamente dichiarata. Dopo un fallimentare tentativo con green screen ed effetti digitali, ho deciso di affidarmi ancora una volta alle capacità evocative dell’analogico. Alla precisione ortopedica dei computer, voglio anteporre la passionale imprecisione di un Méliès. Anche questa è politica, no?

Sei un cineasta votato alla coralità. Come ti sei trovato a dirigere tutti questi attori in uno spazio tanto angusto come quello di un autobus?
Ho girato gran parte del film con due macchine da presa, senza particolari inconvenienti organizzativi. Trattandosi di un film che fa astrazione delle coordinate di spazio e tempo, non ho mai avuto l’esigenza di convocare l’intero cast nello stesso ordine del giorno. Ho gestito ogni giornata di riprese a piccoli gruppi, facendo molte prove e lasciando largo margine all’improvvisazione. La mia esperienza come produttore mi ha sempre indotto a ottimizzare le risorse disponibili.

Parlo al produttore più che al regista: è stato complicato riunire le condizioni per realizzare questo film?

Il cammino è stato estremamente accidentato. Considera che il Ministerio de Cultura, per un mero errore burocratico, una data inesatta su un documento, ha negato al progetto quei finanziamenti che aveva inizialmente previsto di destinargli.

Quale traiettoria immagini per Emergency Exit, una volta ultimata la postproduzione?

Fino a qualche anno fa, arrivati a questo punto, avremmo parlato dell’importanza dei festival. Ma cosa sono, oggi, i festival? Piattaforme inerti, che esaltano la convenzione, corrotte da un logorante dirigismo culturale.

È un film, «Emergency Exit», che sembra quasi un atto di commiato. I tuoi progetti da produttore sono ancora molti. Quelli da regista?
Tutti i miei film potrebbero essere presi per dei canti del cigno. In questi ultimi anni, a dire il vero, sfiancato dalle difficoltà intrinseche al lavoro, ho pensato a più riprese di abbandonare il cinema. In questo momento, però, ho diversi progetti in fase di sviluppo e preparazione. In qualità di produttore, ad esempio, sono in attesa di accompagnare l’uscita dell’ultimo film di Javier Rebollo, Dans la chambre du sultan. Come regista, sto lavorando all’idea di un documentario incentrato su tre persone geniali e controcorrente, sistematicamente oltraggiate dall’ambiente sociale con cui sono costrette a interagire. Per il momento, non mi è dato dire di più.

Essendo «Emergency Exit» un film sulla morte, mi vedo costretto a chiedertelo: cos’è la morte per Lluís Miñarro?
La morte non esiste. Siamo frammenti di infinito, destinati a perdersi nella sostanza dell’universo.

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