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Javier Marías, segnali di vita nel vortice del tempo e della prosa

Javier Marías, segnali di vita nel vortice del tempo e della prosaAntoni Tàpies, «Sedia e piede», 1983

Scrittori spagnoli Testi brevi a carattere autobiografico, pubblicati negli anni sulla stampa e poi riuniti da Javier Marías nel 2008 in un volume finora inedito in Italia: «La metà del mio tempo», ora da Einaudi

Pubblicato circa 7 ore faEdizione del 13 ottobre 2024

Ossessionato dall’idea del tempo come enigma, Javier Marías mette in scena personaggi spesso costretti dagli eventi a prendere atto di come il passato determini il proprio presente ben al di là di quanto sarebbero disposti ad accettare. Non a caso, fu nel 2008, quando aveva cinquantasette anni e stava per portare a termine il suo romanzo più esteso, Il tuo volto domani (apparso inizialmente  in tre parti pubblicate rispettivamente nel 2002, nel 2004 e, infine, nel 2007 per un totale di 1.112 pagine), che si dedicò anche alla raccolta ora tradotta con il titolo La metà del mio tempo Guardando indietro (bella traduzione di Maria Nicola, Einaudi, pp. XVI-400, € 22,00) una incursione nei temi più cari, da una prospettiva diversa, ma complementare a quella della sua opera narrativa. Come osserva nella prefazione Miguel Marías, fratello maggiore di Javier, queste pagine potrebbero assumere la forma di «un involontario, parziale e perfino arrischiato libro di memorie», essendo una raccolta «ragionata» e «ricostruita» ad hoc da Inés Blanca, con l’aiuto dell’autore, a partire degli articoli più autobiografici che lo stesso Marías è andato pubblicando sulla stampa spagnola , dai primi anni Novanta fino al 2008.

Senza un ordine programmatico, racconta dei fratelli, di amici, parenti e scrittori che – in modo involontario e imprevedibile – hanno occupato un ruolo centrale nella formazione della sua stessa fisionomia di scrittore, lasciando intravedere quale tema di fondo una elegiaca, profonda e a tratti umoristica indagine sul tempo in quanto arcano, liquido amniotico sfuggente in cui l’Io si forgia e si va modificando in funzione del passato, ovvero, di quelle esperienze vissute da cui dipende il presente, e rileggendo le quali, a volte, ci è possibile, se non anticipare, almeno intravedere il futuro.

Il titolo della raccolta deriva da un articolo eponimo che Marías scrisse a ventisei anni dalla morte della madre,  Lolita (di origini cubane) e il fatto stesso di averne allora il doppio (cinquantadue) fa sì che si sorprenda a riflettere sul fatto che «per quanto siamo consapevoli delle nostre probabilità, o della nostra probabile durata, il nostro radicamento nella vita ci rende molto difficile abbandonare l’idea alla quale siamo abituati, e cioè che abbiamo sempre se non tutto, almeno molto tempo davanti, e che il passato, di cui ci resta solo il ricordo, non possa essere altro che – indefinitamente – la metà, quella metà». Constatazione che spinge Marías  a valutare quali  differenze sostanziali passino tra coloro che «bruciano» le tappe senza mai guardarsi indietro, e anzi proiettandosi costantemente sul piano (illusorio) del futuro e le persone che invece «pur senza vivere nel passato, ne sono impregnate e lo portano sempre con sé. Non come un peso, bensí come un bagaglio senza il quale non si riconoscerebbero, o si sentirebbero spiacevolmente incomplete». Marìas è fra questi, dice di sé, aderendo inoltre alla frase dell’amato Montaigne, secondo il quale  «Il mio io di adesso e il mio io di fra poco, siamo certo due; ma quale sia migliore non posso davvero dirlo». Che l’Io dell’autore resti fedele a se stesso, o a una certa immagine di sé, è chiaro anche nelle sue prose brevi, dove è più esplicito il riferimento e il confronto con chi ha fatto parte del suo passato, della sua vita privata, pagine dove ancora più che nella narrativa quel «bagaglio» esistenziale viene scopertamente rovistato. Non è affatto casuale, dunque,  la scelta di Inés Blanca di aprire e chiudere il volume con due «finti» cahiers personali: il «Falso diario Moleskine», scritto nel 2001, quando il nome di Marías appare ormai sistematicamente nella lista dei potenziali candidati al Nobel, e il «Diario di Zurigo», scritto a puntate per una rivista tedesca nel 1998, quando l’autore aveva appena pubblicato il «falso romanzo» Nera schiena del tempo (altra sconcertante indagine sull’enigma temporale) e già ottenuto un successo mondiale grazie a romanzi come Un cuore così bianco (1992) e Domani nella battaglia pensa a me (1994). Niente affatto casuale è anche la foto da bambino scelta dall’autore come immagine di copertina: accompagnato da due dei tre fratelli, Marías li imita vestito da cowboy brandendo le due pistole come a sfidare lo sguardo del fotografo. La dedica recita: «A Miguel, Fernando e Álvaro; e a Julianín, che il primo non ricorda e in tre non conoscemmo», perché morì a tre anni e dunque tre su quattro dei fratelli non riuscirono a conoscerlo, come si legge nei brani dedicati di Nera schiena del tempo.

Sebbene non si presenti come un testo organico, La metà del mio tempo ha una sua singolare e concreta unitarietà, che riguarda l’associazione di temi fondativi della narrativa di Marías con ricorrenze stilistiche che rendono unica la sua voce, prime tra tutte la proliferazione delle digressioni e il ritmo della prosa avvolgente, in grado di stabilire un metaforico «filo di continuità» tra mondo dei vivi e mondo dei morti. Noi – scrive Marías –  non «possiamo opporci, né alla nascita, né al vivere, né al viaggiare nel tempo, finché non è il tempo a stancarsi di noi e a relegarci nel territorio che non scorre». Rievocando gli scrittori della sua personale galleria di antenati ideali  e sodali –  da Juan Benet, che Marías contribuì in modo determinate a far conoscere al di fuori della Spagna e cui va da sempre la sua devozione, al poeta Peter Russell,  dal cubano Guillermo Cabrera Infante, al più giovane Aliocha Coll, al surrealista  Vicente Aleixandre,  questi scritti testimoniano come convivano tra le sue pagine l’«Autoritratto briccone» di uno scrittore poco disposto a prendersi troppo sul serio e la persona «su cui ciò che accade lascia traccia, come se i fuggevoli fatti che finiscono sempre per diluirsi gli si depositassero nello sguardo facendogli vedere più del dovuto e gli pesassero sul volto rassegnato».

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