Liudmyla Djadchenko, la sconfitta della vita nel gioco contro il tempo
L'intervista Parla la poetessa ucraina che terrà oggi una «lectio» a Firenze nel giorno dell’anniversario dell’invasione russa. «Lo scorso anno ho smesso di scrivere: immagini e metafore mi sembravano insulse e false e i miei sentimenti erano spariti. Ho provato paura, impotenza e disperazione»
L'intervista Parla la poetessa ucraina che terrà oggi una «lectio» a Firenze nel giorno dell’anniversario dell’invasione russa. «Lo scorso anno ho smesso di scrivere: immagini e metafore mi sembravano insulse e false e i miei sentimenti erano spariti. Ho provato paura, impotenza e disperazione»
Liudmyla Djadchenko è una delle giovani poetesse più talentuose d’Ucraina. Residente a Kiev, vicepresidente dell’Associazione degli scrittori ucraini, è autrice di un paio di sillogi, i cui testi principali – con alcuni inediti – sono ora tradotti da Paolo Galvagni nell’antologia La fobia dei numeri (Interno Poesia, pp. 128, euro 15,00). La lirica di Djadchenko ha un sostrato junghiano ed è fortemente spiritualistica, pur nella concretezza del dettato. Non mancano cenni accesi di rivendicazione d’identità con riferimenti all’Odissea, al Vangelo, al samsara.
Come dichiara la poetessa in una lettera acclusa all’edizione italiana: «Dall’inizio dell’invasione militare su larga scala da parte della Russia sul territorio ucraino, lo scorso anno, ho smesso di scrivere poesie: immagini e metafore mi sono apparse all’improvviso insulse e false, e i miei sentimenti sono spariti, per via della terribile realtà che mi circondava (…). Ho provato paura, impotenza e disperazione. E dolore totale: per il mio popolo, che viene colpito dal nemico, e per la mia terra e le mie città, che vengono distrutte dalle bombe russe».
Vincitrice della 67/a edizione del premio Ceppo Internazionale «Piero Bigongiari» (a cura di Paolo Fabrizio Iacuzzi), oggi, a un anno dall’invasione russa dell’Ucraina, Djadchenko terrà una lectio a Firenze nella sala del Gonfalone del Consiglio regionale della Toscana. Ha risposto con sorprendente solerzia alle nostre domande, nonostante fosse «in viaggio per l’Italia» e, «a causa della guerra», la strada si dimostrasse «lunga e tortuosa».
«La fobia dei numeri». A cosa si riferisce esattamente questo verso, che è anche il titolo della raccolta pubblicata qui in Italia?
Per quanto riguarda la poesia specifica, si tratta ovviamente della paura del tempo, degli anni che hanno un’espressione numerica. Pensavo che l’età e l’invecchiare fossero avvertiti maggiormente dalle donne ma, parlando con i miei amici maschi più anziani, mi sono resa conto che tutti ricordavano con nostalgia la giovinezza, e si riferivano alla senilità come sorte avversa. Così, la «fobia dei numeri» che «da domani come nebbia penzoleranno» è un accenno di vita sulle rive del tempo. Ci sono tentativi di accettare questa paura attraverso l’autoironia («in silenzio li guardo – spavento vicendevole»).
Tuttavia, nel finale del testo, si può ancora rintracciare l’umiltà nei confronti di questi numeri e la solitudine che implicitamente accompagna sempre la vecchiaia: ecco perché il soggetto lirico della citata poesia sparge briciole per gli uccelli, in modo che almeno qualcuno rompa la solitudine e il silenzio con un suono. Noi arriviamo in questa vita da soli e la lasciamo soli. Un atto assolutamente individuale. Gabriel García Márquez ha scritto che «il segreto per invecchiare bene è aver fatto un patto di onestà con la solitudine». Per quanto concerne il titolo del libro, mi piace come si adatta alle varie sfumature semantiche: è la paura della precisione (certezza numerica), la mancanza di opzioni, che nuoce alla poesia e all’arte in generale (del resto, l’arte è sempre la ricchezza d’interpretazione di un’immagine); oppure la cognizione di una sconfitta contro il tempo e il suo innegabile dominio; oppure l’arte come tentativo di fissarsi nel reale. Nella lingua ucraina c’è un sinonimo di solitudine, che è formato dal valore numerico «uno». Possiamo dire che in questo caso la paura dei numeri è anche paura della solitudine. La vita è forse il gioco di una persona con il tempo, alla fine del quale il tempo vince.
Qual è il suo rapporto con la spiritualità?
A volte mi sembra che tutta la poesia – questo monologo rivolto a sé stessi – sia in realtà una delle forme di conoscenza del mondo e di Dio. Sì, sono attratta dalla religione fin dalla tenera età, ma ora ho una diversa percezione della dimensione spirituale. Credo che sia necessario uscire dal sistema dualistico: il mondo intero è una simbiosi di gamme graduali differenti. Il significato di una determinata cosa non è sempre in sé, ma al di fuori di essa (ad esempio, un giornale ha un senso preciso quando c’è qualcuno che lo legge). Bene, gli scienziati sono stati in grado di infrangere il principio di località: le parti del fotone sono state separate e allontanate l’una dall’altra, e hanno continuato a interagire. Quando gli scienziati hanno calcolato la velocità del trasferimento delle informazioni tra i fotoni, essa era cento volte maggiore della velocità della luce. Mi pare che questa sia la stessa idea della Bibbia: il mondo è una singola entità. Il peccato dell’uomo è che ha cominciato a percepire il mondo e sé stesso in maniera frammentaria, cioè divisa. Finché le diverse denominazioni «competeranno» tra loro, si allontaneranno da Dio, dall’amore, mentre la spiritualità riguarda proprio l’identificazione di sé stessi con gli altri.
Anche il «tu» è molto presente nei suoi testi. Che consistenza spirituale e materiale ha?
Si può dire che il «tu» si manifesta nelle mie poesie in tre diversi aspetti: come persona vicina (un potenziale oggetto lirico indirizzato dal soggetto lirico); come Dio; e molto spesso come un’altra faccia di sé stessi. È una sorta di pratica di sé nell’«altro». Senza l’«altro» la persona non può conoscersi, l’«altro» è la capacità di modificare il proprio io e di proiettarsi nel destinatario. Mi piace il modello semiotico-strutturalista che si ritrova, in particolare, negli scritti di Umberto Eco e che ci ha suggerito di guardare all’interazione tra il lettore e l’autore come un processo in cui l’altro, cioè il lettore, ravvisa il suo vero io in nuove circostanze. Con le parole della mia poesia: «amare è spargere sé stessi nello spazio / raffigurando nomi d’altri».
È nata a Morynci, lo stesso paese di Taras Sevchenko. Cosa significa questo poeta per l’identità ucraina?
Così come Dante è il «padre» della lingua italiana, Sevchenko è il creatore della moderna lingua letteraria ucraina. Lo chiamerò anche il creatore dell’identità ucraina e della nazione ucraina tout court. Lui non voleva essere un «piccolo russo» (la Piccola Rus’ è il nome di alcune terre ucraine conquistate nel periodo zarista, ndr) e lo ha dichiarato, rinunciando ai privilegi dell’Impero russo, quando gli altri nostri intellettuali hanno accettato silenziosamente tali condizioni. A quanto mi risulta, Sevchenko è il primo prigioniero politico dello stato russo, esiliato per dieci anni in Kazakistan con il divieto dello zar di scrivere e dipingere.
Tuttavia, gli anziani kazaki gli hanno permesso di dipingere i loro santuari. Ora questi disegni, acqueforti, acquerelli decorano i musei d’arte in Kazakistan. Inoltre, a Taras Sevchenko è stato permesso di scolpire lapidi musulmane nella pietra, e ha educato molti figli dei kazaki. Il governo a quel tempo vedeva nelle sue poesie (che erano sia satira politica, sia appelli rivoluzionari per il cambiamento nel sistema politico e sociale, sia poesie storiche) una minaccia per consolidare le opinioni sulla possibilità che l’Ucraina fosse uno stato indipendente, e combatté contro esso. Sfortunatamente, la mia gente deve ancora lottare per la libertà, e non solo per sé stessa.
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