L’Italia fragile che non ha peso politico
Sei anni dopo Amatrice Le aree interne italiane sono senza “voce”: pur essendo pari al 53% dei Comuni italiani, più del 60% del territorio e 23% della popolazione. Tanto spazio, ma poco peso politico. Sono “mangiate” dal disegno dei collegi elettorali e sono state private delle uniche istituzioni intermedie che le rappresentavano, le comunità montane. La Legge “Del Rio” sulle città metropolitane ha fatto il resto
Sei anni dopo Amatrice Le aree interne italiane sono senza “voce”: pur essendo pari al 53% dei Comuni italiani, più del 60% del territorio e 23% della popolazione. Tanto spazio, ma poco peso politico. Sono “mangiate” dal disegno dei collegi elettorali e sono state private delle uniche istituzioni intermedie che le rappresentavano, le comunità montane. La Legge “Del Rio” sulle città metropolitane ha fatto il resto
La notte del 24 agosto 2016 ad Amatrice un terremoto di magnitudo poco superiore a 6,0 distrusse non solo gli edifici del centro storico del paese causando 240 vittime, ma anche alcune palazzine della zona in cemento armato e di più recente costruzione, procurando 18 morti. Per questi crolli, alcuni costruttori e amministratori locali sono stati condannati per mancato rispetto delle norme antisismiche. «C’è una spada di Damocle che incombe sui piccoli paesi italiani, spesso impropriamente definiti ‘borghi’, e in particolare quelli delle aree interne: i forti terremoti», scrivono Emanuela Guidoboni e Gianluca Valensise nel loro saggio Paesi che tremano: la dura storia delle aree interne (in Contro i borghi, Donzelli, 2022).
La sequenza dei terremoti tratta dalla banca dati del Catalogo dei forti terremoti in Italia è impressionante. Il 70% della sismicità che ha colpito il Paese con distruzioni pari o maggiori all’ottavo grado della scala Mercalli riguarda la dorsale appenninica. Ma il terremoto non causa la medesima distruzione in tutti i paesi. Norcia fu colpita qualche mese dopo, il 30 ottobre 2016, con un terremoto di intensità analoga, ma non vi fu alcuna vittima. Perché questa differenza? Perché Norcia ha avuto la capacità istituzionale di tradurre la “familiarità” con i terremoti in una diffusa pratica locale del “ben costruire”, come mostrano appunto Guidoboni e Valensise. L’impressionante “storia sismica” di Norcia va dai terremoti del 1328 e del 1703, con tre forti eventi lungo poche settimane, cui ne seguono altri distruttivi nel 1719, 1730 e 1859.
Con il terremoto del 1979 il Comune decide di non subire passivamente il destino di morte e di seguire le disposizioni antisismiche. Del resto, va ricordato che anche a Norcia quasi tutte le chiese crollarono o furono fortemente danneggiate, tema che solleva la non facile questione della protezione di beni storico-architettonici nelle aree sismiche italiane.
Un destino tragico e beffardo quello dell’Appenino e, in generale, delle aree interne italiane: un immenso patrimonio che rischia di crollare, chiesa dopo chiesa, palazzo dopo palazzo, statua dopo statua. Una difesa certo non semplice, ma senza la quale tutta le narrazione pubblica su “Bellitalia” si scioglie come neve al sole. Perché, per il nostro Paese, i terremoti sono una certezza: accadranno, saranno forti e localizzati in una fascia larga alcune decine di chilometri sull’asse della catena appenninica. Non sappiamo, ovviamente, quando ciò succederà. In quale anno, giorno o mese. Ma anche di fronte alla certezza dell’evento, non si fa nulla.
Le aree interne italiane sono senza “voce”: pur essendo pari al 53% dei Comuni italiani, più del 60% del territorio e 23% della popolazione. Tanto spazio, ma poco peso politico. Sono “mangiate” dal disegno dei collegi elettorali e sono state private delle uniche istituzioni intermedie che le rappresentavano, le comunità montane. La Legge “Del Rio” sulle città metropolitane ha fatto il resto.
Come conseguenza, le aree interne italiane non sono rappresentate nelle scelte di investimento pubblico e con un orizzonte di lungo periodo. Prevalgono la difesa di posizioni di rendita di breve periodo dove cave, concessioni edilizie, spiagge o agroindustria estraggono valore dalle risorse immobili dei territori, a favore di pochi gruppi, individui o aree “polo”. Città grandi, città medie, zone costiere dove agiscono conglomerati di interessi economico-finanziari a carattere estrattivo, con il consenso attivo della politica e della regolazione pubblica. Oppure si diffondono progetti “di eccellenza” attraverso bandi che fanno cadere su singoli comuni milioni di euro, senza una visione territoriale unitaria.
Del resto, quale politico costruirebbe la sua carriera sul consenso di aree che non hanno peso elettorale? E quale comune di costa si metterebbe contro gli interessi “che contano”? E non sarà il “piccoloborghismo” esploso durante la pandemia a salvare le aree interne. La narrazione pubblica del “borgo-merce” – associata alle rievocazioni storiche in costume e al branding dei territori – è parte del problema, non la sua soluzione.
Come già per la cultura, l’evocazione del “borgo” fa sì che anche la valorizzazione del territorio sia tale solo se inglobata nella goffa egemonia del turismo petrolio d’Italia. Nessuno sguardo di lungo periodo, nessuna attenzione per la vita quotidiana delle persone che in quei luoghi abitano o vorrebbero trasferirsi, nessuna messa in sicurezza del territorio e dei manufatti. Una narrazione falsa e selettiva, quella dei borghi, basata sulla bellezza come descrittore vuoto e con chiari connotati di classe e di potere. Una narrazione che nasconde un’Italia fragile e lontana dai grandi interessi, che rischia di crollare sotto i nostri occhi avvolta dalla retorica del Paese più bello del mondo.
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