In quel germogliare di mostre che si inanellano le une alle altre, invadendo tutta la città per far spazio alle «Visioni di identità inquiete» promesse dalla XVIII/a edizione di Fotografia Europea a Reggio Emilia (fino all’11giugno, a cura di Tim Clark, Walter Guadagnini e Luce Lebart), c’è posto anche per la potente installazione multimediale The Island di Mónica de Miranda, artista portoghese-angolana che vive fra Lisbona e Londra. L’avevamo conosciuta alla Biennale arte di Venezia 2022 con il suo magnifico video No longer with memory but with its future, dove prendevano già vita quelle «geografie degli affetti» che l’autrice sostiene essere fondamentali nel suo percorso esistenziale e di ricerca estetica. A Lisbona, nel 2014, de Miranda ha fondato l’Hangar – Centro de investigação artística, «un luogo di resistenza – dice – e un crocevia di incontri che combatte l’esclusione delle minoranze nella cultura. Quando mi sono trasferita in Portogallo, le mie istanze artistiche basate sulla diaspora non venivano accolte». Fra le sue fonti d’ispirazione c’è soprattutto la poesia (anche rivoluzionaria): quella di Cláudia Sampaio, del combattente per la libertà di Capo Verde e Guinea Bissau Amilcar Cabral e del primo presidente dell’Angola, Agostinho Neto.

Il film «The Island» è avvolto in un’atmosfera fiabesca…
Frammenti, simboli e miti danno forma alle nostre esperienze, modi di vivere e percepire il mondo. Per questo motivo, i personaggi del film viaggiano nel tempo come figure mitiche e prendono corpo attraverso la narrazione, mettendo in atto un processo di individuazione. In questa trama fantastica risiedono nello spazio sicuro della finzione, ma invocano anche la realtà dei fatti storici. Tutti, nel film, si immergono in un tempo ciclico, «agendo» diversi archetipi. Ho iniziato a scrivere la storia di The Island durante il primo lockdown, cercando di «rompere» l’isolamento attraverso l’immaginazione e i fantasmi della memoria che mi investivano – arrivavano da mia nonna e mia madre, che avevano vissuto il conflitto coloniale in Angola. Mi sono ricollegata al mio passato e ho dovuto rinegoziare l’idea di libertà. L’isola rappresentava quel mio trovarmi in una situazione in cui dovevo affrontare me stessa e capire, come molte altre persone durante il confinamento, la mia posizione nel mondo. La storia che racconto ha molteplici riferimenti: riguarda i miei ricordi, ma anche esperienze e immaginazioni.

da The Island (foto di Matilde Cenci)

L’isola descritta si ispira a un luogo reale?
Stavo facendo delle ricerche sulle presenze nere in Portogallo quando mi sono imbattuta nelle vicende di una comunità afro-diasporica sulla riva del fiume Sado, nella regione dell’Alentejo dove, tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo molti africani furono spediti a lavorare nelle saline, e dove successivamente si stanziarono. Da qui, l’isola come utopico luogo in cui potremmo rifugiarci, spazio che custodisce segni ricorrenti di rinascita. Nel film si rievoca la «biografia» di questa comunità, mescolando il piano documentario a quello della fiction. In un paesaggio non localizzato si raccontano storie della tratta di esseri umani, di dominio, lotta, amore e speranza, nonché la capacità di una rigenerazione fisica e spirituale. Le isole sono punti di intersezione fra diverse culture, territori di transito e compaiono nell’immaginario collettivo fin dall’antichità, spesso connesse alla cosmogonia delle origini. Eppure l’isola è anche uno spazio ambiguo, dove possiamo svelare l’esperienza diasporica della migrazione costante: qui la nostra fantasia corre, libera da narrazioni egemoniche.
È un luogo, quindi, che si colloca tra finzione e documentario e si riferisce alla Ilha dos Pretos (l’isola dei neri). Questi personaggi sono riemersi dall’oblio. Attraverso loro, si entra in varie dimensioni del tempo – l’archeologo è legato al passato, il capitalista al presente e la bambina al futuro. La donna è madre e guerriera, rappresenta la forza della cura che sostiene la vita, ma lotta anche per la propria individuazione. L’archeologo è un mediatore tra gli elementi temporali, scruta il suolo e riporta alla luce accadimenti. Il capitalista nasce dalla critica agli attuali sistemi estrattivi. La bambina, invece, ha il potere del futuro, pur conservando il passato nel suo stesso corpo.

In una recente intervista, ha affermato che catastrofi e guerre sono generate dal controllo estrattivista dei flussi della vita…
Il mio lavoro è radicato nella nozione di recupero (e cura) di memorie perdute, che sono ancora materialmente presenti attraverso corpi e paesaggi. L’arte crea interconnessioni tra storia umana e planetaria, in una prospettiva rigenerativa. Il lavoro ecofemminista di Vandana Shiva mi è di profonda ispirazione, concordo con la sua idea che la terra è stata trasformata in qualcosa di fallico. Ancestralmente, era concepita come un luogo più femminile, materno, dove esseri viventi e ambiente naturale coesistevano in un rapporto di reciproca comprensione. Questa comprensione è stata sostituita da un modo maschile di trattarla, attraverso l’estrazione e il controllo. The Island attinge a questo tema e rivendica l’appartenenza femminile alla terra. Il suo suolo, l’acqua e la biodiversità non sono nostre invenzioni ma realtà materiali che fanno fiorire vita. Sono beni comuni, non proprietà. La natura non funziona in flussi estrattivi lineari unidirezionali, ma in un rigenerativo e circolare flusso in cui ogni parte dà e riceve. Le catastrofi e guerre sono radicate nell’avidità con cui guardiamo alla terra e ai suoi abitanti. Il valore dei nostri corpi e del bene comune della vita non può essere ridotto a materia prima «efficiente» a scopo di lucro, ma sono preziosi in sé. La mentalità estrattivista, fin dal colonialismo e dalla rivoluzione tecnico-scientifica, ha reso noi umani – e molte altre specie – degli homeless, sia a livello spirituale che fisico.

 

SCHEDA

Simon Roberts

A Fotografia Europea, fra le varie mostre proposte, sbarca «Güle Güle», una Istanbul dai profondi cambiamenti colta da Jean-Marc Caimi & Valentina Piccinni. Poi c’è l’inglese Simon Roberts: con «Merrie Albion» interroga il suo paese sulla nuova identità dovuta alla Brexit, mentre il collettivo The Archive of Public Protests con «You will never walk alone» raccoglie le tracce visive dell’attivismo sociale. Samuel Gratacap presenta «Bilateral», il passaggio degli esuli attraverso l’Italia meridionale e le Alpi. «Odesa» dell’ucraina Yelena Yemchuk ritrae i volti dei giovani nell’Accademia militare, mentre il francese Geoffroy Mathieu segue i raccoglitori, ai margini delle aree coltivate. Ai Chiostri di San Domenico la committenza è stata affidata a Myriam Meloni, che parte dal mito di Europa narrato da Ovidio. A Palazzo da Mosto, c’è parte della Collezione Ars Aevi, nata durante l’assedio di Sarajevo. Al Palazzo dei Musei, la Giovane Fotografia Italiana #10 | Premio Luigi Ghirri 2023. Vince Giulia Mangione, menzione speciale a Eleonora Agostini.