La Repubblica islamica, ostaggio della sua retorica incendiaria, è intrappolata tra i suoi falchi che lo spingono verso un ruolo più attivo nel conflitto tra Israele e Hamas e la conservazione dei  propri interessi.

La propaganda anti-americana e anti-israeliana è stata una delle colonne portanti della politica del regime, che ha presentato la causa palestinese come fondamentale nella sua visione del mondo. Così ha ottenuto un seguito nel mondo musulmano. Ciò le ha permesso di ottenere un vantaggio sui suoi rivali arabi, che Teheran accusa di tradire i palestinesi.

Negli ultimi anni, Israele ha condotto numerose azioni contro l’Iran, che includono operazioni militari contro il personale e asset iraniani in Siria, attacchi informatici alle infrastrutture dell’Iran come il massiccio attacco Stuxnet contro l’impianto di arricchimento nucleare di Natanz e l’eliminazione mirata di comandanti militari e scienziati nucleari.

Teheran, per conto suo, ha fornito assistenza economica e militare a diversi gruppi militanti ostili a Israele in Yemen, Siria, Libano, Gaza e Iraq, con differenti gradi di vicinanza tra loro e verso Teheran. In particolare Hezbollah è considerato l’attore principale nella politica difensiva/offensiva anti-israeliana di Teheran, detenendo un notevole potere politico e militare, attivo lungo il confine settentrionale di Israele. Il sostegno economico e militare di Teheran è esteso anche a Hamas e Jihad islamica palestinese a Gaza.

La leadership della Repubblica islamica è pienamente consapevole che un confronto aperto con Israele e gli Stati Uniti potrebbe avere conseguenze disastrose. Teheran, già alle prese con una crisi economica in gran parte provocata dalle sanzioni imposte dagli americani, non può permettersi il costo ricorrente di un conflitto diretto che gli esperti all’interno del paese stimano equivalente al 30% del PIL del paese, tenendo conto dei costi sostenuti durante la guerra in Siria. La diminuzione delle esportazioni di petrolio comporterebbe una significativa riduzione delle entrate nazionali, anche se i prezzi del greggio dovessero aumentare. Ma la principale ragione che impedisce a Teheran di aspirare ad un conflitto diretto è il calcolo dei costi di uscita dalla guerra. È difficile prevedere che un conflitto diretto possa concludersi con un accordo o un cessate il fuoco. Invece, il panorama ispirato da ciò che è accaduto in Iraq e in Afghanistan è molto più realistico. Questo scenario porterebbe inevitabilmente alla estinzione del sistema politico della Repubblica islamica, una prospettiva che i governanti iraniani non vogliono assolutamente rischiare.

Amir Abdullahian, Ministero degli affari esteri, durante una conversazione telefonica, con l’arcivescovo Paul Richard Gallagher, segretario per i Rapporti con gli Stati e le Organizzazioni Internazionali vaticane, ha apprezzato le posizioni del Papa e affermato: “ci sono due opzioni nella situazione attuale. Una di esse è cercare una soluzione politica e stiamo lavorando su questa strada attraverso consultazioni. L’altra opzione è la prosecuzione del conflitto e la possibilità di un suo ampliamento”.

Il divario tra la retorica bellicosa di Teheran e le azioni relativamente contenute riflette profonde polarizzazioni all’interno del paese riguardo ai meriti di una guerra regionale su più fronti.

Nonostante la reputazione intransigente di Raisi, primo ministro iraniano, le sue politiche nei confronti della guerra sembrano trovare un equilibrio tra escalation controllate contro le forze israeliane e statunitensi e l’assertiva diplomazia iraniana. Ciò dovrebbe servire a confermare la legittimità ideologica senza mettere a repentaglio la sopravvivenza del regime.

La decisione della Repubblica islamica potrebbe essere stata influenzata anche dall’atteggiamento di Russia e Cina. I due paesi potrebbero impedire all’Iran di mobilitare le sue milizie alleate per intensificare l’escalation. La Russia si è storicamente opposta agli attacchi transfrontalieri da parte delle milizie allineate con l’Iran, come l’attacco Houthi del gennaio 2022 agli Emirati Arabi Uniti e teme che sostenere apertamente l’Iran contro Israele possa portare a trasferimenti di tecnologia israeliana di “Iron Dome” all’Ucraina.

Allo stesso modo, la strategia di bilanciamento regionale della Cina si basa sul mantenimento di relazioni positive con Israele e Iran, anche se ha criticato le azioni militari israeliane a Gaza.

Inoltre sembra che il principale alleato di Teheran, Hezbollah, non abbia intenzione di aprire un secondo fronte con Israele in larga scala.  Hezbollah è uno dei principali attori della politica libanese, anche se il suo sostegno tra la popolazione sta gradualmente diminuendo. La guerra potrebbe infliggere danni incalcolabili all’intero paese e ciò potrebbe comportare l’uscita definitiva di Hezbollah dalla scena politica ufficiale. Basta pensare che l’accordo precedentemente accettato tra Libano e Israele, con il consenso di Hezbollah, concernente i confini marittimi e lo sfruttamento dei giacimenti di gas nel Mar Mediterraneo, verrebbe completamente messo in discussione, minando ulteriormente le speranze di una ripresa economica in un momento in cui il paese sta affrontando una delle più gravi crisi economiche della sua storia. Hezbollah non vuole essere considerato il responsabile della tragedia economica e sociale del paese.

Le azioni di Teheran sono state molto più caute. Questo contrasto probabilmente continuerà, poiché l’Iran desidera mantenere intatta la sua rete regionale di milizie e rafforzare la sua posizione diplomatica.

Secondo alcuni osservatori iraniani, l’inattività militare della Repubblica islamica dopo l’invasione israeliana in corso a Gaza segnala la tendenza di Teheran ad allinearsi con gli attori regionali che desiderano evitare un conflitto destabilizzante che minaccerebbe i loro interessi e i delicati equilibri. Ciò comporterebbe all’abbandono dell’ala militare di Hamas pur mantenendo rapporti stretti con l’ala politica.

Domani, l’Iran assumerà la presidenza del forum sui diritti umani dell’Onu. È molto probabile che utilizzi questa posizione per criticare Israele per la mancanza di rispetto dei diritti dei palestinesi, indipendentemente da quanto accade all’interno del suo stesso paese.