Jean Wyllys, membro della Camera dei deputati in Brasile dal 2011 al 2019 per il Partido Socialismo e Liberdade (PSOL) e poi per il Partido dos Trabalhadores (PT), ha dovuto lasciare forzatamente il suo Paese a causa delle continue violenze e minacce subite da bolsonaro e suoi seguaci. Il suo impegno per i diritti umani, la sua analisi politica e il suo racconto attraverso l’arte sono testimonianza di umanità e resistenza.

Jean, la tua vicenda di esilio è metafora degli ultimi anni di violenza politica della storia del Brasile.

Una storia che crea dolore perché c’è il rischio di re-vittimizzazione. Nessun esilio è volontario, ma sono stato obbligato a causa delle minacce di morte che ho subito ripetutamente. Anche prima dell’assassinio di Marielle Franco – nel 2018 – in una fase di ascensione dell’estrema destra, sono stato utilizzato come una specie di capro espiatorio. Evidentemente riunivo le caratteristiche ideali per essere bersaglio di una campagna diffamatoria. Così ho abbandonato il terzo mandato alla Camera per proteggere la mia vita e quella della mia famiglia. La Commissione interamericana di diritti umani aveva richiesto misure di protezione allo Stato brasiliano, ma il governo, al tempo presieduto dal golpista Michel Temer, lo ha negato. Durante il golpe ai danni di Dilma Rousseff, la sera del 17 aprile 2016, ho sputato in testa a Bolsonaro dopo che ha elogiato il torturatore di Dilma e dedicato a lui il suo voto, facendo un’apologia della tortura, cosa che si sommava agli insulti omofobici e assedio politico che perpetuava su di me da otto anni. Nonostante gli allarmi che davo, non sono stato ascoltato e hanno trattato il mio caso come qualcosa di individuale. Il rischio era essere assassinato oppure morire di depressione. Del resto in Brasile è molto facile assassinare un omosessuale e poi incolparlo della sua morte.

Adesso, attraversi l’arte, racconti il “desexilio”…

Ho subito una violenza senza tregua fisica, virtuale, comunicativa che è stata utilizzata da politici che – per fare la scalata – mi diffamavano, costruendo appunto infamie. Ho denunciato a Bruxelles, a Ginevra, negli Stati uniti il carattere autoritario e lesivo dei diritti umani di un governo – come quello Bolsonaro – fondato su teorie della cospirazione e l’attacco alle minoranze. Ci sono esiliati interni che sono spariti dalla vita pubblica a causa della violenza sofferta da Bolsonaro, ma sono rimasti in Brasile visto che non tutti hanno la possibilità di uscire dal proprio Paese, come ho avuto io. Adesso a Barcellona, dove faccio un dottorato sulla disinformazione, ho ripreso a dipingere con più continuità: l’arte come cura della violenza subita. Un modo per reinventarmi e ricollocarmi nel mondo dopo il trauma della violenza. Al momento sto facendo un’esposizione a Barcellona chiamata appunto “desexilio” parola coniata da Mario Benedetti – scrittore uruguaiano che ha vissuto a lungo in esilio – durante il ritorno nella sua terra: il dis-esiliarsi non è definibile, ma richiede un percorso altrettanto lungo e complesso quanto l’esilio. Racconto la memoria del tempo dell’esilio e la descrizione di ciò che accade politicamente in Brasile in un’epoca che spero stia terminando.

Parlando di ciò che accade politicamente, che idea ti sei fatto degli ultimi atti di violenza a Brasilia?

Erano attesi, annunciati, denunciati da chi come noi monitora le reti fasciste. Annunciati e denunciati. C’è stata una certa indolenza, anche lentezza da parte delle autorità: il ministro della giustizia, Anderson Torres, è stato ingenuo a pensare che il governatore, Ibaneis Rocha, e il prefetto di Brasilia, Anderson Torres, – due bolsonaristi – sarebbero intervenuti per contenere gli atti vandalici. Il ministro della difesa José Múcio Monteiro ha dato dichiarazioni equivocabili dicendo che gli accampamenti fascisti di fronte alle caserme erano manifestazioni democratiche: se chiedono il golpe, non sono democratiche. C’è stata, quindi, indolenza e complicità in mezzo a strumentalizzazioni dell’estrema destra in grado di creare membri di sette elettorali che si chiudono nel fanatismo. Oltre a queste persone, deve essere responsabilizzato soprattutto chi ha finanziato le loro azioni: imprenditori dell’agrobusiness, organizzazioni religiose conservatrici, gruppi criminali.

Si parla di internazionale socialista, ma la vera internazionalizzazione al momento l’hanno fatta loro unendo gruppi in Ungheria, Usa, Polonia, Argentina, Brasile, Spagna, Italia con modalità che si ripetono e sanno utilizzare molto bene l’algoritmo per creare divisioni, polarizzazioni politiche e radicalizzazione estreme nella società. Ma soprattutto, credo che queste persone siano immagine di una classe risentita con la trasformazione del mondo da parte di movimenti antirazzisti, femministi e di genere.

Pensi che ci sia anche un sentimento di inquietudine, di paura dietro a questi atteggiamenti?

La notte dell’invasione dei golpisti, ho dipinto un quadro: “O ovo e a serpente”: un riferimento esplicito della distruzione del Congresso Nacional, ma nella cupola del palazzo sembra esserci un tappo di uova di serpente generate nel proprio parlamento da discorsi fondamentalisti, antidemocratici. Il che mostra una contraddizione della democrazia: l’estrema destra utilizza la democrazia per arrivare al potere e poi sabotarla.

C’è un riferimento all’11 settembre che ha favorito la crescita dell’estrema destra – e allo stesso Capitol Hill. Del resto, la storia sa ripetersi come un algoritmo: quello che è accaduto a Brasilia è un “copia e incolla” di Capitol Hill. Gramsci diceva che nell’’oscurità tra il mondo che sta morendo (che conosciamo) e quello che sta nascendo (che non conosciamo), nascono i mostri. Non sapremo cosa nascerà con la fine del mondo che stiamo conoscendo e la nascita di uno nuovo, tra crisi climatiche, epidemiche (modello di sviluppo), trasformazione tecnologica (uomo-macchina), ma loro in realtà si rivoltano rispetto a un mondo che sta sorgendo e può spaventare.