Dal manifesto del 28 febbraio 1980 la prima intervista a Marco Bellocchio che racconta il suo secondo film, Salto nel vuoto. Questo articolo è stato riproposto nella newsletter speciale “Cuore di Cannes” dedicata al Festival francese del cinema in corso in questi giorni.

 

Il tuo ultimo film Salto nel vuoto pur avendo molti elementi in comune con quelli precedenti si caratterizza per un tipo di approccio diverso al cinema.

Credo sia lo stile del film legato’ al temi del film stesso. È una dimensione diversa da quella de / pugni in tasca e di altri lavori in cui si esprimeva un anarchismo cieco contro la società. Dove si sentiva come un senso di disperazione. Inoltre mancava la sessualità, c’era si un certo tipo di morbosità, di anarchia, però mancava quella sessualità che ritengo indispensabile nell’ideare un progetto. Ecco, questa è una novità, il discorso sulla vita, il discorso serio, sentito, certamente non ancora risolto, ma di cui sono convinto e cioè che non si può scindere la vita. È una cosa vecchia che continua da prima e dopo il ’68, la disperazione dell’artista per la qualità del lavoro.
Tutte queste cose sono combinate insieme a livello della professionalità, dello stile.

Probabilmente si sente anche una diversa consapevolezza dell’utilizzo del mezzo cinematografico, sottolineata dal fatto che hai girato in studio, che hai curato il montaggio. Si avverte una diversa maturazione.

Sì, fino a pochi anni fa io sentivo il discorso del pubblico come persecutorio, mi baloccavo sempre in quelle situazioni che poi non ti giovano tra la tentazione di fare i film per il pubblico e il disprezzo che conduce a una ricerca assolutamente aristocratica. Ora il problema non si può risolvere a parole. Credo che il discorso cinema va fatto film per film.

Infatti proprio in un tuo film Marcia trionfale si risente moltissimo questa tentazione problematica del rapporto con il pubblico.

Sì, è vero, risentiva di questo equivoco, anche se in qualche modo in me era estremamente sofferto, contraddittorio, non teorizzato e quindi riconosciuto in senso autocritico. Ma poi, di fatto, c’era sempre quel discorso, che tanti registi fanno nel rimomento del successo, di difendersi con il successo di pubblico, di dire: il pubblico ha sempre ragione.

Alcuni hanno letto il finale del tuo film come una incapacità della donna a ritrovare l’autonomia. Il bambino come nuovo oggetto da accudire una volta perduto il fratello.

Secondo me è un sintomo della vitalità del film. Ci sono una serie di interpretazioni diverse che non voglio assolutamente conciliare, ma se si separa il momento finale da quanto è avvenuto prima, questa rischia proprio di diventare un finalino, quasi un lieto fine. Il buttarsi dalla finestra di lui è la sparizione di un fantasma del fratello, in quel momento è una nascita e una morte, le due cose sono legate insieme. Se le si separa: lui si ammazza poi lei si sveglia di soprassalto e va’nel letto del bambino, si minimizza tutto. Invece io credo profondamente che la nascita scatta da una separazione e separarsi da questo fantasma, da questa figura estremamente negativa che abbia seguito in tutto il film, le permette la rinascita.

Tra i personaggi interpretati da Piccoli e Placido c’è un rapporto simile a quello del dottar Jekill e mister Hyde, in cui uno spinge l’altro a compiere atti che razionalmente rifiuta?

Nel senso del doppio di Placido, sì, perché Placido ha una dimensione anarcoide, libertina e assassina, è il rifiuto di un certo tipo di istituzione, della società borghese, della grande istituzione che è la famiglia. In questo senso Placido può essere il demone dell’ossessione del giudice.

In occasione dell’uscita del film hai rilasciato un’intervista in cui traspare un Bellocchio ormai in pantofole. È così?

Sai come funzionano le interviste, si dicono un sacco di cose che in seguito bisogna sintetizzare, poi c’è lo stile di Repubblica con il rischio che tutto finisca in barzelletta. Si parlava di psicanalisi, io ho espresso una posizione di rifiuto della psicanalisi da stampella, della rassegnazione, della masturbazione. Credo proprio che sia un obbligo per qualsiasi militante aver rapporti reali con le persone, certo se un militante comincia a fantasticare allora finisce che la sua teoria politica non corrisponde alla realtà e quindi non è utile alla causa del progresso. Ma il discorso del pubblico e del privato, iniziato nel ’68 è tutt’altro che risolto.

I compagni, ma io non parlo dei grandi gerarchi del Pel o dei grandi partiti operai, quelli si sa vivono all’interno di contraddizioni lampanti, parlo dei militanti più sinceri, più onesti, dovrebbero porsi con più forza il problema. Insomma non si può permettere che un militante viva ad un livello di infelicità troppo grande perché questo diventa dannoso per la sua stessa causa. In quella intervista si faceva capire che anch’io, come tanti, che non so condannare, mi fossi riferito a religioni, all’India o altro, questo assolutamente no. Non credo che si faccia la rivoluzione con la psicanalisi, beninteso, ma esistono teorie analitiche giuste altre sbagliate. Quello che credo indispensabile è che il militante stia bene di salute, perché la scissione di sé porta alla sconfitta. Soprattutto in questo tipo di società comporta il delirio, la pazzia, porta alla gente che spara e che ha sempre più bisogno di sparare. Questa è la tragedia: per credere di esistere non si ha altra soluzione che quella di continuare a uccidere e a massacrare.