Cultura

L’incontro possibile e quello mancato tra Benjamin e Gramsci

L’incontro possibile e quello mancato tra Benjamin e GramsciWalter Benjamin

Scaffale Per Quodlibet il volume collettaneo curato da Dario Gentili, Elettra Stimilli e Gabriele Guerra. La domanda che attraversa il libro è insidiosa: come si può trasformare in «attiva» la «rivoluzione passiva» che rovescia la tensione all’uguaglianza in una violenza (auto)distruttiva? Non si tratta di un mero interrogativo teorico

Pubblicato circa un anno faEdizione del 7 novembre 2023

Un incontro mancato: Walter Benjamin e Antonio Gramsci (Quodlibet, pp. 268, euro 21, curato da Dario Gentili, Elettra Stimilli e Gabriele Guerra) è uno studio comparato che, in sedici saggi firmati da altrettanti autori, contribuisce a modificare il prevalente approccio catastrofista e nichilista alla storia e alla politica. Emarginati in vita in Germania e in Italia, uccisi dalla persecuzione nazifascista, protagonisti di riflessioni folgoranti e anticipatrici, Benjamin e Gramsci sono autori di opere aperte accomunate dalla critica dello storicismo meccanicistico e dell’economicismo – approcci riduzionistici ricorrenti anche nella storia del marxismo; dalla critica alla socialdemocrazia e al «progressismo»; dalla necessità di inventare nuove forme storiche di pensiero e di prassi capaci di reagire alla sconfitta della rivoluzione comunista in Occidente, avvenuta con la strage degli spartachisti in Germania e con l’avvento del fascismo in Italia.

C’È UN ALTRO ELEMENTO interessante in un’opera che, per la prima volta, mette a confronto pensieri così originali. La riformulazione-revisione del materialismo storico in una filosofia della prassi (Gramsci) e in un messianesimo «debole» (Benjamin) risponde alla crisi politica. Crisi non unica, considerato il fatto che, dopo quella degli anni Venti, altre se ne sono date. Quella degli anni Settanta, ad esempio, che ha coinciso con l’affermazione della «contro-rivoluzione» neoliberale dopo la caduta del Muro.

NEI MARXISMI GRAMSCIANI e benjaminiani la crisi è l’occasione della creazione di nuovi concetti che riattivano la critica e il suo rapporto con la dialettica. Oggi, questa impostazione permette di rovesciare l’idea apocalittica della fine del mondo che pervade il pensiero contemporaneo. Ed evidenzia invece la ricchezza delle connessioni con i vecchi e i nuovi saperi critici nati da altre prassi politiche: i femminismi, i pensieri post-coloniali, l’ecologia politica o la critica del razzismo. Non va dimenticato il fatto che Gramsci e Benjamin sono pensatori anche molto diversi. La filosofia della prassi del primo non è il messianesimo politico del secondo.

La differenza è sostanziale ma andrebbe valorizzato un suggerimento presente nel libro. Sia Gramsci che Benjamin rispondono a un problema fondamentale posto da Marx nell’Introduzione alla critica dell’economia politica del 1859: una società non si pone problemi per la cui soluzione non siano già state covate le condizioni necessarie. Nel caso dei due pensatori il problema è quello della rivoluzione nel momento in cui essa è relegata all’archeologia. Le loro riflessioni permettono, ieri come oggi, di riaffrontare il problema in condizioni mutate. Non c’è però uno spartito unico da seguire. È una questione di prospettiva dove può trovare casa sia chi pensa la prassi attraverso il messianesimo, sia chi l’articola attraverso la creazione di un’altra egemonia nella storia.

Notevole è la sezione del libro intitolata «Rivoluzione, controrivoluzione, rivoluzione passiva». Quest’ultima idea è stata usata da Vincenzo Cuoco, e prima ancora da Thomas Paine. Fu riletta da Gramsci per descrivere il processo storico dal Risorgimento alla controrivoluzione seguita ai moti rivoluzionari dell’Ottocento in Europa. La categoria è stata riattualizzata dai curatori per definire il neoliberalismo come una nuova rivoluzione passiva. Una tesi che, chi scrive, ha provato a formulare altrove. Segno di una circolazione virtuosa di alcune idee in Italia.

La domanda che attraversa il libro è insidiosa: come si può trasformare in «attiva» la «rivoluzione passiva» che rovescia la tensione all’uguaglianza in una violenza (auto)distruttiva? Non è un mero interrogativo teorico. Raccoglie, invece, i risultati interlocutori di una dura lotta globale contro l’offensiva reazionaria del neoliberalismo autoritario che ha riscoperto anche le «guerre di civiltà». Le resistenze, da Black Lives Matters a Non Una di Meno o ai movimenti per la libertà di movimento tra i confini sono un segnale intermittente di questa tendenza.

Il rovesciamento di un’egemonia non è però risolvibile teoricamente. A questo problema solo la prassi può rispondere. In condizioni peggiori lo hanno fatto Benjamin e Gramsci. Nulla impedisce di continuare a farlo oggi.

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