In questi giorni tremendi in cui siamo sopraffatti dal senso di impotenza, dalla mancanza di vie d’uscita da un bagno di sangue che fomenterà e genererà odio e allontanerà a lungo ogni possibile prospettiva di soluzione politica, c’è una cosa apparentemente poco rilevante che mi disturba: il coro che chiede alla senatrice Liliana Segre di dire che a Gaza è in atto un genocidio.

Quello che sta succedendo è evidente anche senza che lo dica lei, lo ha detto la Corte Internazionale de L’Aja chiedendo a Israele di prevenire gli atti genocidiari elencati nelle disposizioni provvisorie. Israele ha violato e viola ripetutamente e gravemente tutto ciò che è stato indicato come necessario per rispettare la Convenzione per la Prevenzione del Genocidio. Sono fatti.

Di fronte al massacro a Tel Al Sultan, non sono nemmeno convinta che la parola genocidio sia adeguata per definire la crudeltà che vediamo in diretta, il delirio avido di distruzione delle frange più estremiste, il silenzio accondiscendente dei “moderati” perché “c’è la guerra”. Forse ci vorranno parole nuove come suggerisce Valeria Parrella.

Perché quindi questa insistenza? L’unica spiegazione che trovo è che frustrazione e senso di impotenza stiano dando sfogo a pulsioni inconfessabili e inconfessate. Quale senso nel dare il tormento a una donna sopravvissuta alla Shoah, che si è pronunciata con parole chiare e empatiche sulla popolazione di Gaza e ha sottoscritto appelli per il cessate il fuoco? C’è un’insistenza ossessiva sulla parola genocidio, da pronunciare come riprova della nettezza della condanna, come se ripeterla all’infinito potesse esorcizzare la realtà e fermare ciò che quotidianamente si consuma.

Forse ottenere una simile affermazione da chi della Shoah si è fatta testimone, cela un desiderio di relativizzarne il significato, se non addirittura l’entità, legittimando improprie e insensate equiparazioni e graduatorie di sofferenza e dolore? Non lo permetterà, né dovrebbero farlo altri. Ma il coro cresce, si agita scompostamente al limite dell’insulto, partecipando alla reciproca disumanizzazione che caratterizza questo conflitto.

La redazione consiglia:
La Spagna riconosce lo Stato di Palestina, Colau: «Ma non basta»

Come non capire che una persona con quella storia non può che provare una profonda sofferenza per esempio nel sentire che il governo israeliano, ricorrendo anche a manipoli di estremisti blocca e distrugge convogli di aiuti umanitari perché la gente di Gaza crepi di fame? Della fame che lei ha vissuto, nei racconti della quale chi ha nonni e genitori che hanno conosciuto non dico i campi di sterminio, ma la guerra, è cresciuto? Tanta energia credo sarebbe meglio spesa chiedendo sanzioni concrete e il blocco dell’export di armi, della cooperazione scientifica e di quella militare.

Ci sarebbe pure una logica nella voglia di “disinnescare” lo scudo della Shoah e dell’antisemitismo abusati da Israele e dalle istituzioni ebraiche italiane, ma mi pare che il vero scopo non sia di strapparle parole di condanna, ma usarla come simbolo dell’ “ipocrisia ebraica”, per “smascherare” lei, e così per estensione tutti gli ebrei.

La senatrice Segre ha denunciato l’aumento dell’antisemitismo. Ha ragione. Ne ho viste e sentite di ogni genere e tanta ignoranza.
La situazione è pesantissima, e chi come Netanyahu e Ben Gvir ha definito antisemita prima la Corte de L’Aja, poi l’ONU, ora la Corte Internazionale di Giustizia, alimenta strumentalmente la confusione e commistione impropria tra ebrei, Israele e sionismo e così l’antisemitismo. Ne sviliscono il senso ammiccando ad antisemiti veri che con il sostegno alla politica israeliana si autoassolvono per la propria storia.

La redazione consiglia:
Gaza 2035, il profitto della guerra

Le comunità ebraiche hanno condiviso una piazza con politici apertamente razzisti, come se l’antisemitismo fosse altra cosa, come se fosse possibile combattere una forma di razzismo con chi ne pratica tutte le altre e probabilmente anche quella, ingenerando l’idea che l’antisemitismo sia una cosa diversa dal razzismo, a riprova di quella presunzione di separatezza che invece lo genera e lo alimenta.

A chi chiede pronunciamenti delle comunità ebraiche, segnalo che vorrei invece che tacessero sulla politica di Israele e si occupassero di ciò che è il loro scopo: rappresentare la confessione ebraica nei confronti dello Stato, perché l’ebraismo diasporico non ha nulla a che fare con uno Stato etno-nazionalista.

Di denunciare l’antisemitismo quando c’è davvero, prendendo atto del fatto che nasce anche proprio dall’improprio mischione. Ce n’è quotidianamente, nei rapporti con le persone, negli sguardi sospettosi che incontriamo ogni volta che apriamo bocca, l’attenzione a ogni parola, perché anche la condanna più dura non è mai abbastanza dura, forse non era sincera e chissà cosa c’è dietro… spesso sono le stesse persone che quando scrivono e parlano, alle parole sono assai meno attente perché tanto “antisionismo non è antisemitismo”.

Invece di continuare a pretendere dalla senatrice parole che comprensibilmente non vuole pronunciare e che comunque non servirebbero a fermare Israele, interroghiamoci sui motivi di tanta insistenza. Forse diventerebbe chiaro che poi anche quelle non verrebbero considerate sufficienti. E sarebbero inutili. Saremmo un passo avanti. Nella solidarietà con il popolo palestinese e nella lotta contro il razzismo.