La Spagna ieri ha riconosciuto lo stato palestinese. Lo annunciava in tono solenne il presidente del governo Pedro Sánchez davanti al Palazzo della Moncloa, la sua residenza ufficiale. Le frontiere fra i due stati che l’esecutivo spagnolo riconosceva, a meno di nuovi accordi fra i paesi, sono quelle del 1967. Di questo abbiamo parlato con l’ex sindaca di Barcellona Ada Colau e leader dello spazio dei Comuns, uno dei più importanti soci di Sumar.

«Questo riconoscimento arriva molto tardi ed è del tutto insufficiente. Ma è benvenuto, ovviamente, perché l’attuale situazione di ipocrisia e di doppi standard nella geopolitica europea e americana è scandalosa».

Cosa chiedete?
Dopo che la Russia ha invaso l’Ucraina, sono state adottate sanzioni nel giro di pochi giorni, il paese è stato isolato politicamente, le ambasciate sono state ritirate. Gaza è molto più grave in termini di morti fra civili, fra cui migliaia di bambini, ospedali distrutti, senza neppure permettere alla popolazione di fuggire. Passano i mesi e l’Europa non sanziona. Celebriamo il riconoscimento di Sánchez. Ma ora chiediamo ai socialisti e al governo di imporre sanzioni e di chiamare per consultazioni l’ambasciata spagnola, perché non si possono normalizzare i rapporti con uno stato genocida governato dall’estrema destra, che parla come un fanatico illuminato e che minaccia chiunque lo critichi. E che, peraltro, è formalmente indagato dalla Corte internazionale di giustizia, e ne ha ricevuto richieste che non ha rispettato. Si guardi come si guardi, bisogna fare molto di più. La storia ci giudicherà.

Che cosa è realista pensare che faccia il governo spagnolo ora?
Penso che Sánchez da solo non farà molto di più. Dobbiamo fargli pressione. Anche dall’interno del governo, come stiamo facendo con sempre più forza. Io, ad esempio, ho proposto che i nostri ministri, quelli di Sumar, non abbiano assolutamente alcuna relazione con Israele, non invitino i loro ministri o la loro ambasciata a nessun evento. Vedremo se si potrà realizzare. Il governo è sensibile alle pressioni di Stati Uniti e altri paesi e quindi non farà di più. Lo possono smuovere solo mobilitazioni più forti dei cittadini. Quelle che ci sono state all’università hanno funzionato: molte università hanno tagliato i rapporti con Israele. Negli Usa il movimento universitario, che è stato molto potente, è stato guidato da molti ebrei, il che mi ha dato molta speranza perché ha rotto il falso discorso di Netanyahu che l’antisionismo è uguale all’antisemitismo. La mobilitazione è utile; serve una società ancora più mobilitata.

Parlando di mobilizzazione, lei si è spesa moltissimo per questa causa, più che per qualsiasi altra. Perché?
Come molte altre persone, a casa per mesi mi sono sentita impotente, vedendo le immagini più orribili che mai avrei pensato potessero essere viste di nuovo dall’umanità. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, l’Europa si è affermata come progetto politico per dire che questo non doveva succedere mai più, contro nessuno, da nessuna parte. E invece sta accadendo. Come madre, che vede migliaia di bambini assassinati, come cittadina del mondo che vuole difendere una pace duratura per i nostri figli e figlie, che vuole che il sistema dei diritti umani funzioni, ho capito che tutto questo è a rischio a Gaza. Tutta l’umanità è a rischio a Gaza. E ho pensato che dobbiamo fare di più, che i nostri figli ci giudicheranno per quello che abbiamo fatto mentre era in corso questo inferno, questo genocidio. Da sindaca, siamo stati la prima istituzione a rompere i rapporti con Israele, cosa che ci costò persino denunce, archiviate. Un passo di cui sono orgogliosa perché è quello che andava fatto. Poi ho appoggiato tutte le manifestazioni che ho potuto.

E doveva anche prendere parte alla flottiglia internazionale che doveva portare aiuti.
Dato che sono una figura conosciuta a livello internazionale, dopo essere stata sindaca, mi hanno offerto di fare molti viaggi, ma io voglio contribuire a qualcosa di utile. E la cosa più grave che sta accadendo nel mondo in questo momento, chiaramente, è il genocidio a Gaza. Quando gli organizzatori della flottiglia mi hanno chiesto se volevo salire, non ho esitato, anche se sapevo che era rischioso. Siamo andati a Istanbul assolutamente determinati a salire sulla flottiglia.

Ma poi non siete partiti. Come mai?
Il problema è che ci ritroviamo con questa geopolitica moralmente ripugnante, che permette questo doppio standard fra Russia e Israele. Che ha i soldi e l’influenza politica per bloccare un’iniziativa come la flottiglia. Facendo pressione sul governo turco, ma anche su Germania e Stati Uniti affinché facessero pressione sul governo turco e non lasciassero che le navi della flottiglia lasciassero il porto di Istanbul. Abbiamo passato una settimana intera aspettando di partire. C’erano centinaia di attivisti pacifisti da tutti i continenti, una nave enorme con tonnellate di aiuti umanitari, grazie alla raccolta di 4 milioni di euro di alcune ong. Per tre volte siamo stati sul punto di partire. Ma la terza volta non c’è stato niente da fare: ogni nave deve battere una bandiera, e di solito si usano piccoli stati che ti fanno pagare una tassa più bassa per lasciarti la bandiera. Nel nostro caso era la Guinea. Grazie alle pressioni di Israele, il giorno prima della partenza, la Guinea ha ordinato un’ispezione, cosa che non succede mai, e ha tolto la bandiera. E senza bandiera non si può salpare.

E non si può fare nulla?
Ora le navi sono paralizzate a Istanbul. Gli aiuti umanitari arriveranno comunque, ma noi non rinunciamo all’azione politica, manteniamo l’ambizione che un giorno la flottiglia possa partire da quel porto o da un altro porto del Mediterraneo. Perché l’idea non era solo portare aiuti umanitari, ma rompere il blocco. Gaza è la più grande prigione a cielo aperto del mondo, dove non lasciano scappare nessuno e dove non fanno entrare gli aiuti umanitari. Rompere il blocco continua ad essere un obiettivo prioritario e in questo senso continueremo a provarci. A breve termine è difficile, ma l’organizzazione sta cercando modi per aggirare il problema.

Come vive la contraddizione di appoggiare un governo statale che vende armi all’Ucraina, vuole aumentare le spese militari e ancora mantiene rapporti con Israele?
Siamo nel governo e siamo convinti di farlo perché questo impedisce all’estrema destra di governare. Dobbiamo difendere questo governo di coalizione, anche se questo ci genera contraddizioni, perché l’alternativa è infinitamente peggiore. È chiaro che ci sono questioni, come Gaza e in generale non alimentare l’escalation bellicista o la difesa del pacifismo su cui abbiamo grandi disaccordi coi socialisti. Saremo sempre dalla parte di chi vuole fare di più. E dobbiamo fermare l’esclation bellicista anche in Europa. La maggioranza della popolazione chiaramente vuole la pace, in Spagna e in Europa. Armarsi è conviene solo alle aziende produttrici di armi. La pace è possibile, la pace è necessaria e dovremo difenderla se necessario con i nostri corpi.

Ha senso che in questo momento così difficile la sinistra sia divisa fra Sumar e Podemos?
Penso sia deplorevole che ci siano delle divisioni tra formazioni di sinistra che hanno un programma sostanzialmente comune. E mi dispiace che sia avvenuta questa separazione. Credo che la gente si aspetti che andiamo più uniti possibile quando c’è un’estrema destra che sa organizzarsi molto bene a livello internazionale. Sono stati anni intensi, c’è stata anche una forte usura dovuta al fatto di governare come socio di minoranza. A sinistra, questo genera contraddizioni e tensioni. Ci sono stati problemi, anche personali, che però non dovrebbero pregiudicare i progetti. Io spero che la frattura venga riparata il più presto possibile. In Europa ci sono due liste, ma io ho fiducia che tutte le persone che verranno elette lavoreranno insieme.

La rivedremo sindaca?
Mi hanno offerto un ministero, mi hanno offerto un seggio a Bruxelles. Ma io sono una municipalista convinta, innamorata del progetto di città che difendiamo. E comunque penso che sia positivo che ci si fermi ogni tanto per un po’. Soprattutto quando durante i miei otto anni sono successe un sacco di cose: un attentato, la pandemia, tutto il processo indipendentista. È salutare prendersi del tempo per riflettere, imparare cose nuove e ripassare gli errori commessi. E poi, se può essere utile, considerare di tornare di nuovo, o di appoggiare la lotta da un’altra posizione. Un ricambio di persone è sempre positivo, credo sia una riflessione generale per tutti.