A metà mattina la stazione nord di Chisinau deve essere uno dei luoghi più affollati, confusi e rumorosi della città, e quindi di tutta la Repubblica moldava, fra donne in coda per un autobus con borse a tracolla gonfie di cibo e di vestiti, autisti intenti a strappare i biglietti senza posare il caffè, guardie giurate, facchini, bagarini, venditori di questo e di quell’altro, e un certo numero di uomini che di giorno, a quanto sembra, semplicemente passano di lì.

MENO DI DUE ORE d’auto separano questo bazar del trasporto locale dalla frontiera con l’Ucraina. Sono terre del crepuscolo che migliaia di profughi attraversano quotidianamente ormai da undici mesi. La Moldavia ha vissuto negli anni Novanta una versione ridotta di quel che accade adesso in Ucraina. Allora il paese è stato diviso in due parti lungo il corso del Nistro da una guerra che ha fatto un migliaio di vittime e ha visto combattere soldati russi, nazionalisti di diverse sponde, volontari romeni e ucraini. A destra del fiume è rimasto un paese che da tempo cerca di entrare nelle grandi istituzioni dell’occidente. A sinistra una regione di trecentomila anime che nessuno al mondo riconosce. Tecnicamente si chiama Transinistria. La capitale è Tiraspol.

A PRIMA VISTA si direbbe che la vita sia rimasta com’era al declino dell’Unione sovietica. Anni fa chiesi al proprietario della pensione in cui alloggiavo che cosa significasse essere un cittadino di questo paese invisibile. Lui mi raccontò quanto segue. «Dopo la guerra civile quelli di Chisinau pensarono che il modo migliore per riconquistare la Transnistria fosse distribuirci i loro passaporti. La maggior parte di noi accettò senza che la cosa sollevasse alcuno scandalo. A quel punto a Mosca, temendo di perdere terreno, fecero esattamente lo stesso. Non esisteva alcuna ragione per rifiutare. Non è finita. Quando la Romania è entrata nell’Unione europea molti qui hanno ricordato di avere origini romene. Così oggi più o meno tutti hanno tre o quattro passaporti. Uno moldavo per andare a Chisinau, uno russo per Mosca e uno romeno per l’Europa. E poi il nostro, il passaporto della Transnistria, che in effetti non serve a nulla».

Attorno a Tiraspol si trovano oggi almeno due battaglioni dell’esercito russo e un grande deposito di munizioni. Non esistono informazioni certe sul grado di preparazioni di quegli uomini. Tanto che, mesi fa, lo stato maggiore ucraino ha fatto sapere di essere in grado di prendere la Transnistria «in qualsiasi momento». La guerra si combatte trecento chilometri a est, eppure questa frontiera è sorvegliata da migliaia di soldati. Sul lato ucraino, sulla strada verso Odessa, ci sono check point ogni dieci chilometri. Da nord a sud corrono due strisce profonde e parallele di fortificazioni. A tutto somiglia, fuorché a una retrovia. «Se la nostra città cadesse, tutta l’Europa sarebbe in pericolo», dice un funzionario dell’Amministrazione di Odessa che parla a condizione di rimanere anonimo. «Qui c’è l’ultimo porto del Mar Nero rimasto sotto il controllo dell’Ucraina. I russi sono proprio di fronte a Kherson, che si trova a duecento chilometri da qui, e sono anche in Transnistria, ma non sappiamo quanti di preciso. Come potete capire, una volta conquistata Odessa, i russi avrebbero le porte spalancate verso l’Europa. Voglio, però, rassicurarvi: noi non cadremo mai».

IN QUESTA PIANURA al limite orientale dell’Europa l’identità degli individui è un fatto ancora in discussione. Contando sullo spirito russo di Odessa, il capo del Cremlino, Vladimir Putin, ha lanciato quasi un anno fa la sua operazione militare. Pensava di cambiare le sorti del paese in tre giorni. Dopotutto nel 2014, dopo la fuga dell’ex presidente Viktor Yanukovich, proprio questa città è stata il teatro di una terribile strage contro la minoranza russa, il cui bilancio, anche in termini politici, non è mai stato chiuso. A Odessa parlano russo a voce alta nelle strade, nei bar, nei ristoranti. Anche adesso, anche durante la guerra. Tutti, però, sono ormai convinti che in fin dei conti la Russia voglia sterminarli. Con la fame, com’è andata cent’anni fa, oppure con il freddo, con l’angoscia o l’artiglieria, come accade oggi. Forse un giorno qualcuno ricorderà di avere una camicia dell’armata rossa da qualche parte nell’armadio, oppure comprenderà di essere sempre stato un ortodosso russo in fondo all’anima. Per ora, però, i soldati di Putin devono ancora combattere metro per metro nel fango del Donbass.