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«Libero dopo quattro anni, ora giustizia per Giulio Regeni»

«Libero dopo quattro anni, ora giustizia per Giulio Regeni»Agosto 2013, piazza Rabaa al-Adawiya al Cairo: sostenitori del deposto presidente Morsi prima del massacro – Reuters

Egitto Incontro con Ibrahim Halawa, arrestato dopo il golpe di al-Sisi e il massacro di Rabaa: «Quelle prigioni sono l’inferno: bruci e muori ogni giorno. Insieme a me giornalisti, studenti, contadini, attivisti. La campagna di Amnesty mi ha tirato fuori»

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 5 luglio 2018

Cinque anni fa un semi sconosciuto generale dell’esercito egiziano, Abdel Fattah al-Sisi, stravolgeva la rivoluzione di piazza Tahrir. Ministro della difesa del primo presidente democraticamente eletto in Egitto, l’islamista Mohammed Morsi, al-Sisi ha dirottato le proteste di piazza contro il nuovo governo: il 3 luglio 2013 il colpo di Stato, un mese dopo uno dei peggiori massacri della storia d’Egitto. In piazza Rabaa al-Adawiya l’esercito ha ucciso quasi un migliaio di persone, inaugurando un’era di repressione istituzionalizzata.

«A Rabaa c’era una grande diversità di persone: giovani, donne con il velo e senza velo, giornalisti, europei. Al-Sisi disse che i manifestanti erano armati, erano terroristi. Non era così». Ibrahim Halawa aveva 17 anni all’epoca. Nato e cresciuto in Irlanda, ogni estate faceva visita alla sua famiglia in Egitto.

Anche nell’estate 2013: «Non mi trovavo lì per questioni politiche, non ne ero interessato – ci racconta – I miei amici, al contrario, parlavano sempre di quanto accadeva in Egitto. Era strano: prima del 2011 gli egiziani non discutevano di politica, non si esprimevano liberamente. Poi, quel giorno, a Rabaa l’esercito uccise dei miei amici. E per me, che venivo da un background democratico, è stato uno choc: una violazione dei diritti umani, a prescindere dalle loro opinioni».

Ibrahim scende in piazza con le sue sorelle e finisce barricato nella moschea al-Fath a Ramses Square. Era il 17 agosto 2013, tre giorni dopo il massacro: «Hanno attaccato la moschea con lacrimogeni e proiettili. Una donna è morta soffocata, io sono stato colpito alla mano. Sono stato preso con 500 persone e le mie tre sorelle».

Una di loro, Somaia, siede accanto a lui, nella sede di Roma di Amnesty International: «Sono rimasta prigioniera per tre mesi. I primi quattro giorni eravamo con Ibrahim in un campo militare, senza acqua, coperte, letti. Poi siamo state divise da lui e portate in una prigione femminile: ci hanno fatto salire in un’auto senza dirci dove saremmo andate. Ci hanno trattato in modo disumano, perquisito in modo brutale: i criminali venivano trattati meglio dei prigionieri politici. Dopo tre mesi durante un’udienza la corte ci ha comminato altri 45 giorni di detenzione, ma pochi giorni dopo siamo state rilasciate. Non ne conosco la ragione».

«I processi in Egitto sono una violazione dei diritti umani – continua Ibrahim – Le mie sorelle sono state arrestate nello stesso luogo e rilasciate su cauzione, io no seppure le accuse fossero identiche. E poi avevo 17 anni, ero minorenne. Le udienze sono state continuamente posposte, per anni, e ci sono voluti sei mesi prima di vedere un giudice. In tribunale eravamo in 500 in gabbie enormi, senza aria condizionata, dietro dei vetri. Non potevamo comunicare con il giudice né con gli avvocati. In tutto il mondo sei innocente finché non si dimostra che sei colpevole. In Egitto è il contrario. Solo dopo quattro anni si è arrivati alla sentenza: sono stato prosciolto insieme a circa 50 persone su quasi 500. Sono stato liberato a ottobre 2017».

Processi di massa, accuse di terrorismo per atti politici, udienze rinviate decine di volte. La normalità nell’Egitto di oggi: «Non è una coincidenza, è una forma di tortura psicologica. Al-Sisi usa le corti penali come strumento politico, con giudici a lui fedeli e i continui rinvii insieme alle sentenze, anche di morte, hanno un fine politico. Io personalmente ho parlato con il mio avvocato una sola volta, dopo tre anni. E non lo avevo scelto io. Mentre parlavamo un ufficiale ha registrato tutto e ci ha vietato di trattare certi argomenti».

E poi la vita quotidiana in cella, un inferno che si ripete uguale a se stesso ogni giorno: «Con me in prigione c’era ogni tipo di persona: professori, giornalisti, attivisti, studenti, contadini. Anche un giornalista di al-Jazeera, Peter Greste. Era con me nel carcere di Tora e quando è uscito ha partecipato alla campagna per il mio rilascio».

«Lì dentro è l’inferno: bruci e muori ogni giorno. Poi ti svegli e ricominci: bruci e muori. La tortura è la normalità: sono i secondini che torturano, non gli ufficiali, perché vogliono dimostrare fedeltà ai vertici. La sofferenza è costante, perenne. Mancano cibo, medicine, acqua pulita, docce. Si dorme a terra, in celle di 3,5×5,5 metri con 30-50 persone. Hai 30 cm di spazio per dormire; non importa se sei grasso o magro, quello è il tuo spazio. Se aprono le porte della cella non è un buon segno: significa che ti perquisiranno o ti picchieranno o ti trasferiranno in un’altra prigione senza avvertirti né dirti dove andrai. Ci sono persone che scompaiono così, per mesi, anni, senza che nessuno sappia dove siano finite. Io sono stato trasferito in nove carceri diverse».

Fino al rilascio, dopo una lunga campagna della sua famiglia e di Amnesty: «Appena rilasciata – dice Somaia – mi sono mobilitata: sapevo cosa stava passando Ibrahim. Ho contattato politici e organizzazioni. Amnesty ha risposto e ha fatto da ombrello: è stato fondamentale, ha dato legittimità e credibilità al nostro caso. La campagna è cresciuta grazie alla copertura dei media: mantenere viva la storia di Ibrahim ha fatto la differenza».

«Il mio caso – conclude Ibrahim – si è risolto grazie a quella campagna. Hanno mostrato chi ero, un prigioniero di coscienza. Amnesty è arrivata al parlamento europeo che ha votato una risoluzione che chiedeva il mio rilascio. Il mio governo all’inizio non ha fatto molto per gli interessi economici con l’Egitto. Ma più il caso cresceva, più il governo è stato coinvolto. Il mio caso dimostra che la mobilitazione della base funziona e dà speranza alla battaglia per la verità per Giulio. Non si tratta solo di cercare giustizia per Regeni, è una battaglia per tutto il popolo egiziano. Ogni famiglia là ha il suo dolore, piange un ucciso, un arrestato, uno scomparso. Ma a differenza di prima le persone hanno imparato a parlare, a criticare. Perdono tanto ogni giorno, ma non la speranza».

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A Pisa la Lega toglie lo striscione giallo

Il neosindaco di Pisa, Michele Conti, segue la linea del suo leader Salvini: la verità per Giulio Regeni non è una priorità. E ha rimosso lo striscione giallo che tantissimi comuni espongono da due anni, «Verità per Giulio».

«Atto indecente e meschino, un’offesa nei confronti della famiglia Regeni», attacca il segretario di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni. Conti risponde: «Tornerà al suo posto al più presto». Ma non si sa quando.

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