«Se non hanno niente da nascondere, perché hanno bloccato tutto?». Semplice, precisa, scontata la considerazione di Cecile Roukos, avvocata, che rappresenta la sua famiglia. Si riferisce al processo sulla strage del 4 agosto 2020.
Nell’esplosione che ha sventrato Beirut, ha perso suo fratello Joseph. «Ogni volta che rivedo le immagini del fungo vedo mio fratello. Mia madre continua a chiedermi se ha sofferto o se è morto subito. Lavorava al porto in una compagnia privata, sostituiva un collega nel suo giorno libero. La giustizia non è per le vittime, è per noi che siamo rimasti, per i nostri figli, per sapere in che paese vivremo. E la pretendiamo».

È UN POMERIGGIO caldissimo, afoso e tranquillo di tre anni fa. Beirut non si ferma mai e i libanesi amano la vita sociale. Sono appena passate le 18, una prima esplosione. La mente va subito a Israele – con cui il Libano è formalmente in guerra dal 2006, non sono mancati negli anni attacchi e scontri – i cui caccia passano spesso sul paese, tanto che si fa a gara a chi ne riconosce prima il tipo. Pochi istanti, le 18.08, e l’onda d’urto provocata dalla seconda e micidiale esplosione delle 2.750 tonnellate di nitrato d’ammonio stoccate nel capannone 12 del porto dal 2014 – dopo il sequestro della nave Rhosus nel 2013 – travolge tutto ciò che incontra con una forza paragonata a quella di 500 tonnellate di tritolo. Lo scoppio si avverte in un raggio di 200 km, fino a Cipro, fino a Damasco. La città è devastata. Corpi, vetri, sangue ovunque. Si conteranno 235 vittime (dati Amnesty e Human Rights Watch, ma si discute ancora sui numeri) morte sul colpo o per le ferite riportate, circa 7mila feriti, 300mila sfollati.

«QUANDO HANNO cominciato a toccare i politici presunti responsabili, l’intera casta ha fatto di tutto per bloccare il processo. Prima ha sostituito due giudici. Poi ne ha provato a mettere qualcuno dei suoi. E adesso che c’è Bitar (febbraio 2021), di cui ci fidiamo, fanno di tutto per ostacolarlo. E questa è una strategia politica». Le parole di Roukos fanno il pari con quelle di Mariana Foudoulian, che ha perso la sorella Gaia e che ora presiede il comitato dei familiari delle vittime. «La vogliono far passare come una disgrazia, ma non è così: tutte le cariche sapevano dell’esistenza del nitrato, c’era una pila di denunce. I responsabili sono loro. Provano a spostare la competenza dalla magistratura al parlamento, vorrebbe dire impunità per tutti».

BITAR HA SPICCATO mandati di arresto e aperto procedure controparte dell’élite politica e amministrativa libanese. Tra questi, il procuratore Oueidat che, oltre a respingere le accuse, ha deliberato il rilascio di tutti i detenuti a gennaio.

LA MAGISTRATURA – il parlamento continua a bloccarne la riforma – è fortemente politicizzata e quindi corrotta e corruttibile in un paese al 150° posto sui 180 presi in esame da Trasparency International a fine 2022. Poche le mosche bianche. «La prossima mossa – continua Foudoulian – sarà rimetterli al loro posto dando loro così la possibilità di insabbiare le prove. Noi chiediamo una Fact Finding Mission e il supporto della comunità e dei media internazionali». Questi gli obiettivi della marcia in programma oggi pomeriggio che avrà come slogan: «Giustizia per Loro». Associazioni e società civile chiedono che questo venga dichiarato crimine contro l’umanità e che un tribunale internazionale affianchi Bitar.

C’È POI LA QUESTIONE della ricostruzione del porto. L’architetto e membro del comitato scientifico organizzato dall’albo ingegneri e architetti Meskineh solleva dubbi sul modello selezionato per il nuovo porto di Beirut e finanziato dalla Banca mondiale. «L’errore sta nel fatto che lo studio ingegneristico e funzionale del porto non considera che è parte integrante della città. Oggi esiste una free zone, a ridosso dei silos che sono diventati il simbolo del 4 agosto, ma questa zona, che dovrebbe essere resa memoriale pubblico, è in realtà poco accessibile: nessuna politica urbana, come del resto non c’è mai stata. Vogliamo più trasparenza e che l’ordine supervisioni il progetto. Il nostro obiettivo è aprire la città al mare e non vogliamo una nuova Solidere (azienda creata ad hoc per la ricostruzione di aree della città dopo la guerra civile del ’75-’90 e simbolo di privatizzazione e corruzione, ndr)». In effetti Beirut pare non essere una città sul mare con la costa completamente privatizzata: per lunghi tratti complessi, resort, ristoranti si frappongono tra la strada e il mare.
La crisi economica che attanaglia il paese dal 2019, la svalutazione della moneta, l’inflazione, l’esplosione e le sue conseguenze sono solo l’ultimo infelice capitolo di una crisi morale, di una spirale dalla quale il martoriato Libano pare non riesca mai a uscire.