Continuano senza sosta i bombardamenti da un lato e dall’altro del confine tra Libano e Israele. Lo scontro tra le milizie di Hezbollah e le Idf (Israeli Defence Forces) segue, per il momento, delle regole non scritte di ingaggio, per cui non c’è stato ancora uno sfondamento da parte delle forze di terra. Regole che hanno garantito, nonostante tutta la linea di separazione tra i due stati sia interessata, attacchi in territori relativamente ridotti a ridosso del confine.

I due attesissimi discorsi di Hassan Nasrallah, capo supremo di Hezbollah, hanno confermato la sua volontà di evitare un’escalation, ma hanno anche sottolineato che la milizia è pronta a qualunque scenario e hanno messo, seppur retoricamente, il pallino in mano al premier israeliano.

In risposta al secondo discorso, il ministro della Difesa israeliano Gallant, in visita qualche giorno fa alle truppe a nord di Israele, ha inviato un chiaro messaggio al Libano: «Quello che stiamo facendo a Gaza, sappiamo farlo anche a Beirut», mentre Netanyahu aveva già dichiarato che «alla fine del conflitto Hezbollah non sarà più un problema».

In Libano, gli sfollati sono circa 29mila, 65mila in Israele; 16 civili libanesi uccisi – tra cui il giornalista Issam Abdallah di Al Jazeera- e 3 israeliani.

89 combattenti tra Hezbollah e altre milizie accertati e 9 militari delle Idf hanno perso la vita negli scontri.

In Siria nel frattempo, nei pressi di Damasco, una postazione di Hezbollah è stata colpita ieri sera dall’aviazione israeliana.

Il presidente Bashar al-Assad, suo fratello Maher e due generali sono stati raggiunti mercoledì da un mandato d’arresto internazionale emesso dalla Francia per crimini di guerra e contro l’umanità negli attacchi contro i civili a Ghouta nell’agosto 2013.

L’aviazione israeliana ha più volte colpito obiettivi militari in Siria dal 7 ottobre e ha bombardato due volte gli aeroporti di Damasco e Aleppo.

Il Pentagono ha dichiarato giovedì che dall’inizio della guerra ci sono stati 58 attacchi alle basi americane in Siria e Iraq e se a ciò si sommano l’attività degli Houthi in Yemen o delle milizie filo-iraniane in tutta la regione, si può tratteggiare il quadro complessivo e la portata di una guerra che, se formalmente si limita a Gaza e al confine libanese, è già nei fatti estesa a tutta la regione.

Il direttore dell’Istituto per gli studi sulla Palestina in Libano Rami Rayess ha risposto ad alcune domande sulla situazione attuale.

Pare che nessuno al momento desideri un’escalation e un allargamento formale del conflitto alla regione. C’è qualcuno che ne potrebbe però beneficiare? Ci sono rischi concreti che la guerra nel sud del Libano si espanda all’intero paese?

Il Libano è al limite. È sempre stato soggetto alle circostanze regionali, basti pensare alla guerra civile (1975/90, ndr) quando è diventato campo di battaglia per poteri regionali e internazionali. C’è la paura concreta, specie in questo momento di grande crisi economica e sociale, che la guerra arrivi a Beirut. Naturalmente un’escalation non è conveniente per nessuno, ma chi conosce i reali obiettivi di Israele in questo momento? C’è un numero sempre più alto di report che denunciano l’instabilità del conflitto dentro la Striscia di Gaza. Crescono inoltre il disappunto e l’opposizione interna a Netanyahu, e una nuova guerra su un altro fronte potrebbe rappresentare un’exit strategy con cui il premier si garantirebbe legittimità. E questo è ovviamente un rischio che il Libano corre.

Il conflitto sta in qualche modo spostando gli equilibri interni di potere in un paese che è da un anno senza Presidente della repubblica e che vive una delle crisi più profonde della sua storia?

L’equilibrio tra i poteri interni al paese è molto delicato e intricato, ma si è sviluppato da prima del 7 ottobre. Non credo che la guerra lo stia ridisegnando, almeno non in maniera sostanziale. Ci sono dei partiti (Hezbollah) che hanno un’importanza regionale che va ben oltre lo scenario interno e questo potere non è stato acquisito oggi. Quello che la guerra ha fatto è stato complicare ulteriormente la questione dell’elezione del presidente. Tutta l’attenzione internazionale adesso è naturalmente concentrata su Gaza, e a livello interno ciò ha rafforzato lo stallo. Sfortunatamente il fallimento del processo di elezione del presidente ha peggiorato la situazione e costretto il paese ad una paralisi costituzionale. Ciò deve essere risolto il prima possibile: se un tale collasso economico, una catastrofe sociale e una guerra nella regione non spingono i leader libanesi a mettersi d’accordo sul nome di un nuovo presidente, che cosa lo potrà mai fare?