«L’Europa si sta suicidando»: a Belgrado, sotto un terso cielo primaverile offeso dalle bombe, un medico commentava così, parlando a un gruppo di pacifisti italiani, le «operazioni aeree nella Repubblica federale di Jugoslavia» (secondo il comunicato ufficiale della Nato), avviate la sera del 24 marzo 1999. Decisivo il supporto dell’Italia che offre tutto, aerei, basi, propaganda. E pazienza per la Costituzione. Nessun mandato da parte del Consiglio di sicurezza Onu. Sabotati in precedenza i tentativi di accordo, nemmeno discusse le proposte serbe (autonomia per il Kosovo e presenza dei militari dell’Osce a tutela); e certo Belgrado non poteva accettare la proposta di un’occupazione a tempo indeterminato da parte delle truppe Nato di tutto il territorio jugoslavo.

IN QUEI GIORNI A BELGRADO e in altre città sotto attacco, la delegazione italiana si p dire fortunata. All’arrivo scende dal pullman e bussa all’hotel Jugoslavia. Tutte le stanze sono libere ma troppo costose per le tasche autogestite. Si finisce in un albergo più economico, nel quartiere Zemun. E la mattina seguente, il portiere comunica: «L’hotel Jugoslavia è stato bombardato stanotte». Qualche giorno dopo, la visita a Novi Sad avviene in un raro giorno di calma, fra un attacco e l’altro. La «guerra umanitaria» invoca la necessità di salvare i kosovari (in realtà ogni conflitto a fuoco fra le due parti passa strumentalmente per «pulizia etnica», inoltre il grosso degli incidenti si verifica dopo l’inizio dei bombardamenti Nato). Ma le bombe cadono anche su obiettivi di infrastrutture civili. Colpiti indistintamente serbi, profughi serbi di Croazia, rom, profughi serbi kosovari, profughi serbi di Bosnia e anche profughi albanesi del Kosovo, morti a metà aprile sul treno che percorreva un ponte centrato dalla Nato. I 78 giorni di Allied Force avrebbero provocato, a seconda delle fonti, fra i 500 e i 2.500 morti civili, oltre a migliaia di feriti.

SEGNI DI RESISTENZA come le proteste degli abitanti di Belgrado e Novi Sad con il famoso cartello Target, o la porta sbarrata del McDonald’s, si mescolano alle macerie dei ponti e della fabbrica Zastava a Kragujevac, alle notizie sui giornalisti e tecnici della televisione uccisi, sull’ambasciata cinese bombardata, all’allarme sanitario per l’attacco agli impianti petrolchimici di Pancevo, alle denunce sull’uso di bombe a grappolo e dell’uranio impoverito nei proiettili anticarro. Il seguito post-bellico vedrà il moltiplicarsi di malattie oncologiche a causa dell’uso di uranio impoverito in quei mesi di attacco.

NELL’HOTEL DI ZEMUN, i pacifisti incontrano Vesna, Neboish e il loro figlio Stephan di sette anni. Sfollati da Sarajevo, vivono lì da anni. Il letto dove dormono in tre, i quaderni di scuola, il fornellino dove frigge la frittatina palacinka, «se non c’era la guerra te la facevo più buona, con le noci», i fagotti da profughi, le foto della loro casa e di un antico, unico viaggio (a Venezia), la chitarra e la Bhagavad Gita di Neboish. Vesna si dichiara «jugoslava, io sono ancora jugoslava». Neboish, mobilitato durante la guerra in Bosnia, si è ritrovato invalido, una pensione di 50 marchi. Si arrangia lei, commerciando in biancheria, «ma adesso, temendo una lunga guerra, tutti risparmiano». Il senso di ospitalità e la voglia di amicizia supera la barriera delle lingue. Amare considerazioni: «Il problema era antico, in Kosovo. C’erano conflitti, certo. Ma l’intervento militare porta non solo altri morti e altri sfollati; porta anche odio. Già prima vivevamo giorno per giorno. Adesso è ora per ora. Forse abbiamo costruito la nostra casa in mezzo alla strada – così si dice da noi». Tornare a Sarajevo? «No, la nostra casa è abitata da altri. Spero nella pace qui, un giorno». Sulle bombe, Vesna sdrammatizza: «Non c’è morte senza destino. Ma certo il cielo sembra esserci nemico. Il 5 aprile hanno colpito a 100 metri. Devo chiedere il risarcimento danni psicologici alla Nato!».

RISARCIMENTI? A distanza di decenni, nessuna causa è andata in porto. La Nato è un’anguilla. Anni fa, in un dibattito pubblico, Carla del Ponte (procuratore del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia) a domanda rispondeva: «Noi come tribunale abbiamo aperto un caso contro gli statunitensi per aver ucciso dei civili sapendo che erano tali; ma poi se non si arriva a fare l’inchiesta perché la Nato non dà accesso alla documentazione, se nessuna capitale europea collabora, come si fa? Abbiamo dovuto abbandonare per mancanza di prove».

UNA SERIE DI TRISTI PRIMATI, questo è stata l’Allied Force Nato del 1999. Li elencava Luciana Castellina nell’inserto del manifesto in ricordo dei 20 anni: la prima guerra combattuta fra nazioni europee dalla fine del conflitto mondiale; la prima volta che veniva stracciato l’accordo di Helsinki sull’intangibilità dei confini statuali; la prima volta che si procedeva a un’applicazione selettiva dei diritti; la prima volta che la «sinistra» andava a bombardare a casa d’altri in prima fila. Concludeva Luciana Castellina: «A 20 anni di distanza le macerie della Jugoslavia, una delle più significative nazioni emerse dalla Resistenza nel 1945, uno Stato al quale dobbiamo quello straordinario schieramento internazionale che fu chiamato “Movimento dei non allineati”, sono tutte lì: nessuno degli Stati emersi dallo smembramento fa bella figura di sé». A Belgrado i 25 anni dall’aggressione sono celebrati in questi giorni con un convegno internazionale.